Tra le favole di Marco Travaglio la più stupida è quella su Beppe Grillo, che generosamente ha tentato in questi due mesi di formare un governo Pd-Cinque stelle e che, poveretto, è stato travolto dalla ferrea determinazione all’«inciucio» di Bersani, Letta e Berlusconi. Travaglio l’ha raccontata su il Fatto del primo maggio scorso. E, nel disperato tentativo di rendere credibile l’asino che vola, ha anche accompagnato la storiella con dolci rimproveri al suo leader di riferimento, che dimenticò – errore veniale, s’intende – di ordinare ai suoi capigruppo di pronunciare i nomi di Settis, Zagrebelsky e Rodotà (nomi che pure avevano «in tasca») nel secondo giro di consultazioni al Quirinale, quando avrebbero potuto mettere a verbale la disponibilità ad un governo di coalizione.
Travaglio sa bene quanto costano al Pd le sconfitte subite in queste settimane, comprese quelle inflitte dalle divisioni interne, e su questo tenta di lucrare da par suo. Ma avverte un’insidia nelle ricostruzioni di queste settimane tra le elezioni politiche e quelle presidenziali: affinché a pagare sia solo il Pd, è necessario occultare, anzi capovolgere, atti e intenzioni dei Cinque stelle. La verità è che Grillo non ha mai avuto la minima intenzione di partecipare, né di collaborare, né di favorire un governo senza Berlusconi. Lo dimostrano tutti gli atti formali compiuti prima al Quirinale, poi alla Camera durante il tentativo di Bersani.
Grillo aveva diverse possibilità di indebolire Berlusconi e ridurne il potere contrattuale. Non l’ha fatto. E non certo per distrazione. Se avesse adottato il «modello Sicilia» – un esecutivo diminoranza del centrosinistra, che cerca in Parlamento i numeri sui singoli provvedimenti – avrebbe consentito la nascita del governo Bersani, pur senza entrarvi. Se avesse posto come condizione un diverso presidente del Consiglio, avrebbe potuto dirlo in occasione dell’incontro al Quirinale, o farlo dire ai suoi nell’incontro in diretta streaming con Bersani: il segretario del Pd si era detto pronto al passo indietro.
Se Grillo avesse cercato un governo organico con il Pd, sia pure con un premier esterno, avrebbe dovuto semplicemente dichiararlo in una sede ufficiale (ma, al di là delle balle di Travaglio, non l’ha mai neppure pensato). In realtà Grillo ha perseguito una ed una sola strategia: rendere il governo Pd-Pdl una necessità. Il potere che gli elettori gli hanno conferito, lo ha utilizzato per favorire Berlusconi e il suo potere d’interdizione sul Pd. Il suo è stato un vero e proprio «patto» con ilCavaliere, sebbene i calcoli e le convenienze siano opposti.
Naturalmente, persino Travaglio si sarebbe vergognato a raccontare la sua favoletta, se la vicenda di queste settimane non avesse incrociato le drammatiche, sconcertanti convulsioni del Pd durante le elezioni presidenziali.
Ma il fatto che il Pd e i suoi gruppi parlamentari non meritano giustificazioni per l’accaduto, non basta a trasformare una balla in una verità. Il nome di Stefano Rodotà, figura prestigiosa della sinistra, non è stato lanciato da Grillo per costruire una maggioranza di governo che a lui, in tutta evidenza, fa orrore. È stato lanciato per dividere, per colpire il Pd. E l’impresa è in parte riuscita. Se avessero voluto costruire qualcosa, checché ne dica Travaglio, i Cinque Stelle avrebbero votato Romano Prodi alla quarta votazione. Con i 160 voti del M5S Prodi sarebbe stato eletto presidente e Berlusconi avrebbe subito una sconfitta cocente. Ma Grillo non vuole che Berlusconi perda. Vuole giocare di sponda con il Cavaliere per colpire il Pd e la sinistra. È questa la sua priorità strategica.
L’Unità 04.05.13