«Non è l’Europa che non va, è questa Europa che non funziona». Stefano Fassina è appena stato nominato viceministro all’Economia. Proprio nel giorno in cui da Bruxelles arrivano gli ultimi numeri della recessione e della disoccupazione nel Vecchio Continente. Qui non si salva nessuno. Eppure si continua a insistere su pareggio di bilancio, su rigore, su procedure d’infrazione. Enrico Letta e il suo governo si dichiarano autentici europeisti. Parlano di Europa come occasione per l’Italia ma da Bruxelles continuano a parlare come gendarmi dei conti. Per di più concedendo più tempo a Francia e Spagna e negando invece flessibilità al nostro Paese.
Onorevole Fassina, c’è un problema tra l’Europa e l’Italia?
«Non è corretto parlare dell’Europa come se fosse un’entità omogenea. C’è l’Europa egemonizzata dai conservatori, quella che oggi ha la maggioranza nella Commissione, nel Consiglio e nel Parlamento. Poi c’è l’Europa dei progressisti, che individua la civiltà del lavoro come fattore propulsivo. L’Italia ha sofferto prima per la scarsa credibilità di Berlusconi, poi per la sostanziale sintonia di Monti con l’egemonia conservatrice. Per questo non siamo riusciti ad affermare il nostro punto di vista, che è l’unico in grado di salvare l’Unione europea, l’unico che punta allo sviluppo».
Crede che Saccomanni sia molto diverso da Monti?
«È molto diverso il governo in cui Saccomanni ha l’incarico di ministro dell’Economia, è diverso il contesto in cui agisce e anche quello europeo. Persino un ultraortodosso come Olli Rehn ha messo in discussione l’austerità, questo vuol dire qualcosa. Ci sono le condizioni per una correzione di rotta. Il fatto che il governo italiano oggi sia sostenuto da un’ampia maggioranza è un punto di forza». Oggi Rehn continua a chiedere riforme strutturali.
«Con questa storia delle riforme si cerca di coprire il fallimento delle politiche di austerità. Dopo 5 anni di manovre, l’Europa è più indebitata di prima, e si continuano a invocare mitiche riforme strutturali. Certo, l’Italia ha bisogno di un nuovo fisco e una pubblica amministrazione più eficiente, ma la priorità di oggi è la domanda interna. Se continuiamo a insistere con il rigore di bilancio e le riforme andiamo a sbattere, sul piano economico e sulla tenuta democratica».
La coabitazione Pd-Pdl non è facile. Come ne uscirà il Pd?
«Dipende dai risultati del governo. Un punto fondamentale è comprendere che si tratta di un compromesso tra due visioni, due programmi, due progetti e tra interessi che sono alternativi. Ne usciremo indicando chiaramente quali sono le posizioni e quali i compromessi accettabili. È stato molto più dannoso quanto avvenuto con il governo Monti, perché si proponeva come unico programma possibile la linea conservatrice prevalente in Europa. Oggi dobbiamo far riconoscere i nostri punti, e ricostruire la politica come terreno di scelta».
Il compromesso in economia somiglia a una compromissione. Si pensi all’Imu. «Prima di tutto dobbiamo spiegare che in un momento d’emergenza si può raggiungere solo una parte degli obiettivi. Al compromesso sul fisco si sta lavorando. Sull’Imu il Pd proponeva una detrazione di 500 euro che esenterebbe il 70% di famiglie. Sarebbe una misura che si iscrive in un quadro in cui bisogna evitare l’aumento dell’Iva e quello dei ticket che scatta a gennaio. Se una famiglia paga 100 euro in meno di Imu, ma 200 in più di Iva, non l’abbiamo certo aiutata. È questo che va spiegato. In questa fase la riduzione delle disuguaglianze si raggiunge favorendo consumi e crescita. Su questo c’è accordo». Sull’Imu però il Pdl riesce a mettere in ten- sione il governo e lo stesso Pd.
«Si tratta solo di propaganda. Quando il governo si sarà assestato e si vedrà la direzione di marcia indicata dal premier. Poi per mille ragioni le posizioni di alcuni si vedono di più di altri».
Il Pd potrebbe arrivare alla scissione?
«No, perché le ragioni fondative del Pd oggi sono più vive che mai. Abbiamo bisogno che le storie e le energie dei riformismi si incontrino per trovare risposte adeguate alla crisi».
Lei non vuole Berlusconi presidente della Convenzione per le riforme.
«Certo, perché serve una personalità che sia punto di riferimento di tutte le forze politiche».
Che ragione c’è di fare la Convenzione?
«Bisogna che un gruppo di lavoro si concentri su questo tema per un certo periodo di tempo, per giungere a conclusioni definite da presentare in Parlamento».
L’Unità o4.05.13
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“Tagli a Irap e Irpef. Ecco il piano del governo”, di Bianca Di Giovanni
Sul tavolo del ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni c’è una lunga lista di richieste, a partire dalla più volte sbandierata eliminazione dell’Imu. Ma quello che si appresta a consegnare in Europa è un piano per la crescita e per il lavoro. Così annunciava ieri una nota di via Venti Settembre.
È già pronta una serie di dossier che rispondono alle richieste dei giovani disoccupati (a cui più volte Enrico Letta ha fatto riferimento) e delle imprese, soprattutto quelle più innovative. Naturalmente c’è la questione risorse da affrontare all’interno della maggioranza. Per ora si parte dai 7 miliardi che garantirebbe la flessibilità europea una volta usciti dalla procedura d’infrazione (che sembra vicina), così come prevedono le nuove regole sul patto di Stabilità.
Ma altre risorse potrebbero arrivare in primo luogo dalla revisione delle agevolazioni fiscali (2-3 miliardi) e dalla riorganizzazione della macchina dello Stato, che porterebbe risparmi ma soprattutto crescita.
Un’ipotesi allo studio è quella di raddoppiare la deduzione Irap già introdotta nel Salva-Italia, che a sua volta riprendeva gli sconti voluti da Romano Prodi con il taglio del cuneo. Costerebbe un miliardo, e andrebbe a tutto vantaggio delle imprese e dei lavoratori under 35, delle donne e dei disoccupati del sud.
Le norme prevedono infatti una esenzione di 10.600 euro per ogni occupato a tempo indeterminato di sesso femminile o sotto i 35 anni. A Sud il contributo arrriva oggi a 15.200 euro. In questo modo le imprese risparmierebbero e si favorirebbe l’occupazione stabile. Nel Salva Italia è anche previsto che le aziende possono dedursi interamente l’Irap pagata sul costo del lavoro dall’Ires e dall’Irpef. Con un incremento che va dall’attuale 10% al 100% le imprese godranno di uno sgravio stimato in 1,5 miliardi annui per il triennio 2012-2014. Il cuneo tuttavia potrebbe essere abbassato anche con una manovra generalizzata sull’Irpef, evitando la segmentazione del mondo del lavoro che in questo momento è tutto in sofferenza. Per questo si studia i, taglio di un punto della prima aliquota Irpef, cioè quella dei redditi fino a 15mila euro, dal 23 al 22%. Lo aveva già proposto Vittorio grilli nella sua ultima legge di Stabilità, poi modificata per evitare in parte la stretta sull’Iva. Questa mossa ha il vantaggio di favorire sia le imprese, che le famiglie di ceto medio-basso, molto colpite dalla crisi.
Insomma, sarebbe un modo per favorire la domanda interna e i consumi, in calo da troppo tempo. L’operazione costerebbe circa tre miliardi. Grilli aveva sforbiciato anche la seconda aliquota (da 15mila a 28mila euro di reddito annuo) dal 27 al 26%, per una manovra complessiva di 5 miliardi. Questi interventi ricalcano in sostanza quello che da tempo imprese e sindacati chiedono. Ma per Grilli dovevano essere finanziati dall’aumento Iva, il cui incremento invece Letta vuole stoppare. Il costo è pesante: 2,1 miliardi quest’anno e il doppio l’anno prossimo.
E infine c’è l’Imu prima casa, che da sola costa 4 miliardi. Si sa che l’Imu è una priorità del Pdl, che comunque pretenderà un intervento se non di abolizione, comunque di «superamento» come dice Letta. L’ipotesi di creare un’unica tassa comunale che includa tutti i servizi potrebbe non portare vantaggi ai cittadini, o al contrario potrebbe svuotare le casse dei Comuni. A questa «lista» bisognerà aggiungere tutte le spese indifferibili, come la Cig in deroga (almeno 1,5 miliardi da aggiungere alle risorse già stanziate), gli esodati, le missioni all’estero. Il «tetto» di 10 miliardi si sfonderà sicuramente. Ma in questo caso molto dipende dai tempi di attuazione delle misure. Per ora i margini non esistono.
A giugno potrebbero «spuntare» 7 miliardi di flessibilità dalle regole del nuovo patto, inoltre si guadagnerebbe più flessibilità nel cofinanziamento dei fondi europei 2013-15. A settembre, dopo le elezioni tedesche, l’Italia potrebbe puntare alla cosiddetta «golden rule», cioè l’esclusione delle spese per investimenti dal computo del deficit, magari con un pressing sulle istituzioni europee da effettuare insieme a Francia, Spagna (che hanno ottenuto più tempo per il taglio del deficit), altri Paesi periferici, e magari (perché no?) l’Olanda, che si ritrova con i conti in disordine.
Naturalmente ottenere tutto questo non è facile per un paese con un debito al 127% del Pil. Ancora ieri Olli Rehn è tornato a chiedere all’Italia riforme strutturali. Qui entrerebbe in gioco una vera spending review, cioè non più tagli lineari, ma una riorganizzazione e innovazione di tutta la macchina pubblica, con risparmi di circa 2 miliardi e benefici per la crescita.
L’Unità 04.05.13