L’episodio di lotta di classe intrapresa nel Pd dai volontari del servizio d’ordine torinese, che al corteo del 1° maggio si sono rifiutati di garantire la tutela dei parlamentari, va al di là della dialettica base-vertice.
I quadri più “fidati” della sinistra torinese – invitando i dirigenti a farsi proteggere dalla polizia anziché dalla struttura militante che in passato tutelò la sicurezza di personalità minacciate dai terroristi come Ugo Pecchioli e Luciano Violante, e che scortava Giorgio Amendola anche quando egli richiedeva “sacrifici senza contropartite” ai lavoratori – denunciano un’incompatibilità culturale senza precedenti: quasi che oggi esistessero non uno, ma due Partiti democratici. Mai prima d’ora avevano rotto una silenziosa disciplina. Si sono dichiarati al servizio dei lavoratori in corteo, ma non di chi dovrebbe rappresentarli. Hanno marciato con gli iscritti autonominatisi “Resistenti democratici” dietro a uno striscione inequivocabile: “No all’inciucio Pd-Pdl”; e con loro invocavano “Congresso libero e subito!”.
Guai a confondere questi militanti del movimento operaio con gli antagonisti che issavano uno striscione recante l’effigie di Luigi Prieti, detestabile apologia della violenza armata. Né li possiamo ascrivere al novero dei grillini che teorizzano l’indifferenza fra destra e sinistra. Diversamente che nel passato, quando si fronteggiarono in varie modalità riformisti e rivoluzionari, moderatismo e estremismo, stavolta la voragine si è aperta dentro al partito, o meglio fra partito e popolo democratico. A Torino come nel resto d’Italia.
È come se i dirigenti del Pd non avessero ben valutato le conseguenze delle procedure democratiche con cui avevano chiamato fino a pochi mesi fa l’elettorato e i tesserati alla partecipazione attiva. Dibattito libero, frequente ricorso alle primarie per sciogliere i nodi politici e selezionare i dirigenti. Con la democrazia non si scherza. Il rigetto diviene inevitabile e incontrollabile quando i dirigenti, anziché rivendicare uno spazio di autonomia decisionale, tramano nell’ombra; e una parte cospicua di loro vota contro Prodi al Quirinale, già considerando obbligata nei fatti l’alleanza di governo col Pdl che respingevano a parole. Doppiezza inaccettabile dacché l’epoca del centralismo democratico è archiviata. Un partito fondato sulla sovranità dei cittadini elettori non può tollerare un cambio repentino di strategia, votato da una Direzione durata meno di tre ore.
Così l’imboscata dei 101 franchi tiratori, nessuno dei quali ha avuto il coraggio di motivare la propria scelta, e la conseguente nascita del governo di coalizione con la destra berlusconiana, ripropongono la categoria (impolitica?) del tradimento. Di ben altro spessore fu il travagliato dibattito sul “compromesso storico” che, a partire dal 1973, preparò nel vecchio partito di massa il varo del governo di larghe intese, tre anni dopo. Le lacerazioni che pure allora si produssero nel popolo di sinistra, in particolare sui temi dell’austerità e dei sacrifici richiesti alle classi lavoratrici, furono certo dolorose. Ma le accuse di svendita e di “imborghesimento” — di tradimento, insomma — giunsero quasi solo dall’estrema sinistra: i militanti del Partito comunista non dubitavano dell’onorabilità dei loro dirigenti, garantita da biografie gloriose e stili di vita condivisi.
Oggi la percezione è drammaticamente mutata, come rivela anche l’ammutinamento di Torino. Non basta il prestigio di Napolitano – l’unico che ha parlato chiaro – a convincere i militanti che si possa/debba rifare il compromesso storico, con Berlusconi al posto di Moro. Non bastano le mezze frasi di D’Alema per giustificare l’affossamento della candidatura di Prodi. Illudersi che la politica segua il suo corso e che alla fine la base “digerirà” anche questo passaggio, significa ignorare non solo le tensioni sociali ma anche le legittime aspettative di condivisione che lo stesso Pd – novello apprendista stregone – ha sollecitato. Come si fa a predicare l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione e al tempo stesso rinnegare una linea politica democraticamente assunta?
“Congresso libero e subito!”, chiedevano il 1° maggio i rivoltosi di Torino. Lo si convochi immediatamente, prima dell’estate, riconoscendo non solo legittima ma preziosa questa richiesta che – per quanto ancora? – giunge dai quadri più generosi, quelli che sacrificano le notti per vigilare sulle feste del partito e che fino a ieri si sentivano in dovere di proteggere i dirigenti, meritevoli di rispetto sia pure nel dissenso. Quel patrimonio di rispetto è stato dissipato, il che renderà ancora più denso di incognite il percorso congressuale. Rimetterà in discussione la tenuta del governo Letta? È probabile. Di certo non sarà indulgente con i responsabili del disastro. Ma chi si illudesse di ridimensionare il travaglio in corso a malcontento sopportabile, non si rende conto che in poche settimane il Pd rischia di perdere il suo popolo. E la sua anima.
La Repubblica 03.05.13