Nel suo discorso alla Camera, il presidente del Consiglio Enrico Letta ha affermato che occorre superare il modello di welfare italiano tutto incentrato sul lavoratore maschio adulto, pensioni e sanità, in direzione di un welfare più inclusivo.
Un welfare più universalistico, quindi anche più amichevole nei confronti delle donne, dei giovani, delle famiglie con figli (aggiungerei anche delle persone disabili o non autosufficienti), oltre che più attento a chi si trova in povertà. Non ci si può che rallegrare che il premier faccia proprie, sia pure con una ventina d’anni di ritardo, le analisi degli studiosi del welfare, specie di quelli e quelle che si occupano di povertà, occupazione femminile e giovanile, oltre che dei rischi prodotti da una troppo lunga dipendenza dei giovani dalla famiglia di origine per mancanza sia di occupazione, sia di adeguati ammortizzatori sociali. Ma come si intende procedere, sia pure gradualmente, in questa direzione? È già successo che buone intenzioni siano state contraddette, non solo o tanto da mancanza di risorse, quanto da scelte sbagliate che hanno peggiorato ulteriormente la situazione. Così, i tagli indiscriminati alla sanità non hanno inciso per nulla sui meccanismi di formazione della spesa, né sulle disuguaglianze territoriali, peggiorando invece in molti casi il servizio, mentre molte famiglie strette nella morsa della crisi non ce la fanno più a pagare i ticket e rinunciano a farsi curare. Dalla mancata prevenzione e dai controlli tardivi è altamente probabile che verranno in futuro costi non solo umani, ma finanziari. La riforma delle pensioni, argomentata come necessaria per salvaguardare le giovani generazioni, non ha solo creato un “tappo” alla domanda di lavoro (di giovani) in un periodo in cui questa era già scarsa. Ha creato anche il fenomeno degli esodati per garantire, doverosamente, i quali occorre impegnare una quantità di risorse non ancora esattamente quantificata, che andrà necessariamente a detrimento di altri settori di intervento. Ora Letta ha annunciato la sospensione dell’Imu sulla prima casa, in vista della sua revisione, mentre il suo principale alleato di governo preme per l’abolizione. Tralasciamo pure la banale questione di equità. In tutti i paesi europei la proprietà della casa è tassata, anche se con criteri meno arbitrari di quanto sia avvenuto in Italia con l’Ici, prima, e l’Imu, poi, nella misura in cui non vi è stato effettivamente alcun riferimento né al valore di mercato dell’abitazione, né al reddito del contribuente. Limitiamoci ad osservare che l’Imu è la fonte principale di entrate dei Comuni, con la quale possono finanziare, tra l’altro, proprio quelle politiche non schiacciate sul lavoratore maschio, pensioni e sanità, che stanno a cuore a Letta e nel nostro paese esistono, quando esistono, solo per decisione locale: servizi per l’infanzia e la non autosufficienza, reddito minimo per i poveri, politiche di accesso all’abitazione per le famiglie a basso reddito, politiche di integrazione. Il fondo sociale che, in teoria, avrebbe dovuto finanziare tutte queste politiche è stato ridotto ai minimi termini dal governo Berlusconi, prima, da quello Monti, poi, con effetti negativi anche sulla domanda di lavoro (prevalentemente femminile) nei servizi. Anche questa è una delle ragioni della perdita di occupate segnalata dall’Istat proprio in questi giorni. Dopo una dura trattativa con l’Anci, era stato promesso che tutto il gettito dell’Imu sulla prima casa sarebbe rimasto ai Comuni, garantendo loro un po’ di respiro.
Se ora viene eliminato, in tutta o larga parte, non è chiaro come i Comuni potranno continuare a fare fronte alle loro responsabilità. Il rischio è che la mai realizzata omogeneizzazione dei livelli di base dei servizi e interventi sociali, come previsto dalla legge 328/2000, avvenga verso il basso. E che le famiglie, specie a basso reddito, si vedano togliere con una mano molto più di quanto viene dato loro con l’altra. Tanto più che Saccomanni ha già annunciato ulteriori tagli alla spesa pubblica, che significheranno una ulteriore emorragia di posti di lavoro e di prestazioni.
Non basta la rituale evocazione della lotta all’evasione fiscale per far fronte alle misure annunciate come urgenti (rifinanziamento della cassa integrazione, garanzie per gli esodati) e per rendere realistiche le promesse di riforma, mentre si riducono le entrate. Pagato il prezzo dell’Imu a Berlusconi, forse era meglio fare meno promesse di riforme mirabolanti che non si possono mantenere e rischiano di produrre nuove delusioni e invece concentrarsi sul sostegno alla occupazione. Esso può essere realizzato mettendo insieme tante misure parziali ed anche forme di collaborazione con le imprese, le cooperative, i sindacati. Perché i lavori da fare e non fatti sono tanti – nella cura, nell’ambiente, nell’istruzione e formazione, nella coesione sociale. Non farli produce malessere e abbandono. Investire (anche) in questi lavori, considerarli come un investimento indispensabile, incentivare la domanda di lavoro in questi settori anche in qualche nuova forma di partnership pubblico-privato, non creerebbe solo domanda di lavoro. Costituirebbe anche un argine contro la disintegrazione sociale.
La Repubblica 01.05.13