I discorsi che i neo-presidenti del Consiglio leggono in Parlamento per ottenere la fiducia ai loro governi sono sempre pieni di buone intenzioni. Anche quello che Letta ha pronunciato ieri alla Camera è stato pieno di buone intenzioni, forse troppo pieno di buone intenzioni. Ma, accanto ai propositi, questa volta, il nuovo inquilino di palazzo Chigi ha pure fornito agli italiani due notizie importanti.
La sospensione della rata Imu di giugno per la prima casa e l’impegno a non aumentare l’Iva. Un annuncio che, legittimamente, ha permesso al centrodestra di rivendicare il successo della promessa elettorale di Berlusconi e di imprimere al primo governo di larghe intese nella storia della nostra Repubblica il suo sostanziale sigillo politico.
È vero che il presidente del Consiglio ha annunciato l’avvio di una nuova fase nella politica italiana, con un esplicito richiamo a quella necessità di una profonda autocritica dei partiti sollecitata da Napolitano nel suo discorso di rielezione al Quirinale. Così come ha posto il problema del lavoro al centro di un programma tutto teso alla crescita e ha confermato una visione europeista, pure molto spinta in senso federale. Ma lo scarto temporale tra le buone intenzioni e le notizie è stato tale che l’appropriazione, debita o indebita, da parte del centrodestra del suo governo è stata fin troppo facile. Anche perché sarebbe stato molto arduo individuare nel fumoso programma elettorale del centrosinistra una proposta concreta, di immediata comprensione da parte dei cittadini italiani, da accogliere nel discorso del nuovo presidente del Consiglio. Ecco perché quello squilibrio politico, in verità, non è addebitabile tanto a Letta, quanto alla sciagurata campagna per il voto di febbraio condotta da Bersani.
Il premier, citando la distinzione che faceva il suo maestro, Nino Andreatta, tra «la politica» e le «politiche», ha cercato preventivamente di ammonire la ex contrastante maggioranza che si appresta alla fiducia a evitare proprio simili divisive rivendicazioni di schieramento e a unirsi sulla necessità dei provvedimenti da varare. Una giusta raccomandazione, anche se i primi commenti dei berlusconiani trionfanti non sembrano averne tenuto conto. Ma è proprio nel merito della complessiva manovra economica annunciata ieri che, subito, è emersa una domanda fondamentale: dove il nuovo governo troverà, nel risicato bilancio dello Stato, le risorse per coprire tutte le nuove spese indispensabili di fronte agli impegni annunciati alla Camera?
La domanda non ha avuto, ieri, una risposta, anche perché le assicurazioni del presidente del Consiglio sulla «ferrea lotta all’evasione» e sul rispetto degli impegni assunti dall’Italia durante il precedente governo Monti non servono, certamente, a trovarla. Né, d’altra parte, il discorso programmatico di un nuovo governo è l’occasione più adatta per snocciolare cifre e illustrare tabelle di bilancio. Si può intuire, però, la strada che Letta ha intenzione di imboccare per mantenere fede alla sua convinzione per cui «di solo risanamento l’Italia possa morire». Ed è quella annunciata da un’altra notizia fornita dal discorso alla Camera, il suo immediato viaggio a Berlino, Bruxelles e Parigi.
Il carattere fortemente europeista che il presidente del Consiglio ha voluto imprimere al programma del governo, infatti, non è solo la rivendicazione della fondamentale sua esperienza politica e intellettuale. Perché individua, persino con le uniche parole un po’ enfatiche di un discorso altrimenti pacato, quelle finali, l’unica possibilità di conciliare la tenuta dei conti pubblici con l’urgenza di avviare la crescita dell’economia italiana. È proprio sulle sue indiscutibili credenziali europeistiche che Letta tenterà di appoggiare le richieste alla Merkel di concedere al nostro Paese quello che è stato ottenuto da un altro confratello del partito popolare europeo, il premier spagnolo Mariano Rajoy, cioè un allentamento dei vincoli sul deficit. Dopo aver invocato l’elezione diretta da parte dei cittadini europei del presidente della commissione, gli sarà più facile, nei prossimi giorni a Bruxelles, incoraggiare i vertici comunitari su quella svolta antirecessiva della politica economica che sembra annunciarsi nelle più recenti loro dichiarazioni. Sarà naturale, a Parigi, stringere un patto di sostegno reciproco con il francese Hollande per rafforzare quella «alleanza per la crescita» che pare incominciare a far breccia nel muro rigorista elevato dai Paesi del nord Europa.
Basterà la patente dell’europeista a 24 carati Letta per convincere la Merkel e, soprattutto, la Bundesbank, di concedergli quello che non hanno concesso a un altro indiscusso europeista come Monti? Basterà il cambiamento di umore continentale che si avverte dappertutto, anche in Germania, per aiutarlo in una impresa che appare abbastanza temeraria? Gli basterà l’appoggio di Napolitano, la competenza e l’autorevolezza internazionale di Saccomanni, il favore di Draghi, la mancanza di una alternativa che non siano le elezioni, per arrivare al primo tagliando del suo governo, quello fissato tra 18 mesi? Domande a cui nessuno, oggi, potrebbe dare risposte. Letta, comunque, merita un sincero augurio, perché l’Italia ha bisogno che le sue buone intenzioni si realizzino. Ma ci potremmo accontentare anche di molto meno di quello che ci ha promesso.
La Stampa 30.04.13