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"La colpa del male", di Adriano Sofri

Si Anela alla giustizia, poi non ci si crede più, e si ripiega sulla vendetta. Passato lo sbigottimento, quando avremo saputo tutto del signor Preiti, quando tutti i suoi parenti e conoscenti avranno dichiarato che «era un uomo normale, tranquillo», scopriremo che non c’era niente da sapere, che un uomo tranquillo ha preso il treno, ha pernottato in una stamberga, si è messo giacca e cravatta ed è andato a sparare davanti al palazzo del governo.
Diciamo la verità: qualcuno avrebbe immaginato una sparatoria a palazzo Chigi nel pieno del giuramento al Quirinale? E diciamo un’altra verità: quando la notizia si andava definendo, chi non ha sentito oscuramente che «c’era da aspettarselo»? Insinuare che l’azione di Preiti sia il frutto di una particolare retorica politica – del Movimento 5Stelle, precisamente – è una sciocchezza vergognosa. Lo sparatore tranquillo è interamente responsabile della sua azione premeditata. Però è anche un sintomo del malanno della nostra comunità. La differenza fra il “gesto di un pazzo” e quello di una persona “normale” è questa, in sostanza: che il primo appare come uno strappo inspiegabile alla trama ordinaria dell’esistenza comune, e il secondo rischia di apparire spiegabile, spiegabilissimo – se non giustificabile. (Le parole non impegnano oltre misura, ma è quello che segnalano i commenti del genere: «Che c’entrano i carabinieri, doveva mirare ai politici»).
La diagnosi sta in questa sensazione angosciata: c’era da aspettarselo. È lei a impedire di chiudere il caso evocando la pazzia (se non è pazzo uno che va a uccidere bravi carabinieri e passanti casuali…). Chissà quanto il signor Preiti abbia saputo prevedere dell’effetto del suo gesto, che voleva “eclatante”. Ascoltavo alla radio i ministri che giuravano: provavo a dedurre, dal modo in cui ciascuno recitava la formula, degli indizi sui meno conosciuti. E all’improvviso i flash di agenzia sulla sparatoria di piazza Colonna si sono insinuati
dentro la cerimonia, e le formule del giuramento si inframmezzavano alle notizie di fuori: di essere fedele alla Repubblica…, sparatoria a palazzo Chigi…, nell’interesse esclusivo della nazione…, agenti feriti…, di osservarne lealmente…, la piazza evacuata… L’Italia stava finalmente procurandosi un nuovo governo, ma al prezzo di una sparatoria cruenta. Era successo che un forsennato a Firenze aveva braccato i senegalesi per ucciderli e ferirli prima di morire lui, ma là il doppio scenario mancava. In cambio, “i politici” sono diventati i senegalesi di una gran parte degli italiani. Se la sono cercata, dicono i commenti. Infatti: qualcuno più, qualcuno meno, altri niente affatto. (I senegalesi poi niente affatto). Nell’incattivimento di una società, c’è almeno un concorso di colpa. Nella gara accanita all’irresponsabilità, siamo a questo punto: che ci si è rassegnati a non confidare più nella giustizia, e si ripiega sulla vendetta. “Un gesto eclatante”: non per trovare un lavoro migliore, o semplicemente un lavoro, non per far riconoscere le proprie ragioni, non per divincolarsi da debiti e umiliazioni. Per finirla col botto. Per vendicarsi. E chi agisce per vendicarsi, cerca negli altri almeno un posticino in cui farli sentire oscuramente vendicati. Arriva un giorno in cui la frase così affabilmente consueta a tante donne e uomini perbene, che a Montecitorio bisognerebbe metterci una bomba, ti fa mordere la lingua. “I politici” sono diventati la spiegazione della rovina e del malumore di un popolo e dei suoi membri solitari e perduti. La rovina succede, e può travolgere ogni riparo. Disgrazia si aggiunge a disgrazia, finché non si abbia più forze e speranze per provare a uscirne. Succede anche ai paesi interi, e loro fanno una gran fatica ad ammetterlo. Un piccolo imprenditore di se stesso si impicca, e buonanotte: poi si discetterà sulle statistiche dei suicidi, per vedere se la crisi c’entra o no. Un paese resiste di più, è fiero, pensa: “Voi non sapete chi sono io, la quinta potenza industriale…”. Poi può cedere. L’Italia è ricca di piazze in cui finirla. La rovina si compie prima di tutto nel linguaggio. La rete non lo suscita, lo rivela, e lo favoreggia.
Nella guerra spietata che i ricchi conducono contro i poveri, gli impoveriti scelgono il bersaglio dei “politici”, cioè degli arricchiti. Ridistribuire la ricchezza sarebbe un atto di giustizia. Far fuori “i politici” è una vendetta. Non riduce lo stridor di denti, ma lo premia. Poi, come succede, si spara a due carabinieri da 1.400 euro al mese.
Perciò dunque il gesto romano suona a suo modo prevedibile. Dopo di che, lo sparatore ha sparato “all’impazzata”, accontentandosi della piazza, pur vuota di politici. È a Montecitorio che oggi si va a commettere gesti insani, come su certi monumenti a buttarsi giù, e bisogna stenderci attorno reti di salvataggio. C’è anche un po’ di americanizzazione. Negli Stati Uniti, quella combinazione fra omicidio e suicidio che sembrò una mutazione peculiare del fanatismo islamista, si manifesta come il desiderio di ammazzarsi portandosene dietro un bel mucchio. Compagni di scuola, avventori del grande magazzino, passeggeri del proprio treno: un gesto “eclatante”, attraverso cui lasciare un segno del proprio misconosciuto passaggio. Succede ormai anche in Europa: non come nell’assassino di massa norvegese che simula di condurre la sua crociata, ma nella gratuita strage che faccia punteggio. “Uccide sedici scolari, poi si spara”. Si riscattano così giornate di lavoretti saltuari e nottate di videogiochi e lontananze da un bambino di undici anni. Poi, a volte, alla fine prevale la paura e la viltà, e non ci si uccide affatto, e nemmeno i carabinieri ti uccidono, benché tu, dicono le cronache, glielo stia chiedendo: “Ammazzatemi”.
“I politici”: sono i primi della lista, ormai. Prima dei padroni, dei giornalisti, dei magistrati, dei preti, dei medici e dei farmacisti. Appena dopo gli esattori delle imposte, di cui appaiono i mandanti. Sono la prima linea della società corrotta e arrogante. Che abbiano in tanti lasciato crescere e gonfiarsi così a lungo la tempesta in cui si trovano, ecco un’altra pazzia. E le distinzioni sono un argine pericolante o crollato: fra mezzo miliardo di euro rubati qua, e mille euro di francobolli per lettera rubati là. Tutti ladri.
La disperazione e la rabbia che corrono nella società non devono diventare un ricatto contro chi provi a cambiarla e renderla meno ingiusta. Però bisogna sapere su quale orlo di vulcano si danza. Prima che lo sparatore della piazza domenicale bruci la distanza che separa la sua solitudine dalla stessa piazza di un giorno feriale, piena di ribollenti spiriti. Se gridi ai “politici”: «Siete tutti morti. Sei un morto che cammina», non stai certo sobillando ad ammazzarli. Ma la volta che uno di loro sia morto e non cammini più, ci resterai male.

La Repubblica 29.04.13

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“Il mistero della pistola”, di CARLO BONINI

Un viaggio con alcuni punti fermi e qualche vuoto. Come la storia della Beretta 7.65 che ne è il sigillo.
Come in ogni storia capace di farsi biografia di una Nazione o, quantomeno, epifania della disperazione incubata dalla sua crisi, si scopre ora e troppo tardi che, come ogni viaggio solitario e senza ritorno, quello di Luigi Preiti, classe 1964, calabrese di Rosarno, era cominciato molto tempo fa. In silenzio e nella distratta indifferenza dei più.
Perché troppo simile e dunque indistinto, nelle parole e nei gesti quotidiani, da quello dei migliaia che in questi ultimi anni hanno perso tutto. E tutto insieme. La famiglia, il lavoro, la dignità, la speranza di uno straccio di futuro. Non c’è follia nella storia di Luigi, assicura oggi chi lo ha conosciuto e continua a volergli bene. Il fratello Arcangelo, che chiede solennemente «scusa agli italiani», l’ex moglie e madre di suo figlio Ivana, i suoi cugini, i suoi anziani genitori, il padre Michelangelo, la madre Polsina. Come pure chi lo ha interrogato in queste ore. Non c’è odio — giura lui ai pubblici ministeri cui consegna la sua confessione. C’è piuttosto il fallimento precoce e invisibile di un’esistenza che se ne va a fondo insieme al sogno collettivo del Paese di un benessere diffuso, acquisito e apparentemente non negoziabile. Quello che, nei primi anni ’90, spinge Luigi a mettersi su un treno che dalla Calabria è diretto al Nord (come aveva fatto il padre Michelangelo, rimasto in Germania per 30 anni) per cercare fortuna nel basso Piemonte, nella provincia di Alessandria, in quel di Predosa, dove quelli come lui, che è un eccellente piastrellista, li chiamano “tapulanti”. Gli edili che lavorano a giornata o a settimana nei piccoli cantieri di provincia.
Luigi è un uomo taciturno e solido. Non ha né modi, né manifestazioni violente. Scansa la politica. Non fugge la sua terra per ragioni diverse o inconfessabili che non siano la ricerca di un lavoro che lo liberi dall’alternativa tra il bisogno e la sudditanza alle cosche. Perché se è vero — come si è ascoltato nelle più recenti intercettazioni nelle indagini sulla criminalità organizzata — che a Rosarno su 2.500 anime la ’ndrangheta ha “500 uomini a disposizione”, è altrettanto vero che la famiglia Preiti, quanto meno il suo nucleo originario, è pulita. A Predosa, Luigi mette in piedi una ditta individuale e le cose, almeno all’inizio, sembrano girare per il verso giusto. Tanto che lo raggiunge anche il fratello Arcangelo, che, come lui, lì resterà a vivere. Si sposa una prima volta con Tiziana, ma non dura a lungo. Poi, incontra Ivana, che, come Luigi, si fatica l’esistenza con le mani, che affonda nelle terre coltivate di una grande azienda della zona. Undici anni fa, mettono al mondo un figlio. Vanno a vivere in una casa popolare. E forse pensano persino di avercelanfatta, perché nella mobilità della nuova Italia, Ivana lascia la campagna e trova lavoro in un call center.
In realtà, la tempesta perfetta che sta per inghiottire i mercati e le economie dell’Occidente lo reclama tra le sue prime vittime. La ditta individuale di Luigi comincia ad accumulare debiti che si sommano a crediti non riscossi. E — per quanto Ivana racconta — lui allora non infila lo sportello di una banca che comunque bnon sarebbe stata disposta a fargli credito, ma la scorciatoia che ti perde una seconda volta e per sempre. Quella delle scommesse. Sul biliardo. Quella che lo spinge ancora più sott’acqua e gli fa perdere le uniche cose che gli sono rimaste. Suo figlio e la donna con cui lo ha messo al mondo.
Nel 2011, quando lascia la famiglia e rimette le sue cose in valigia per percorrere a ritroso e da sconfitto il
tragitto che ha fatto 20 anni prima, Luigi non ha altro dove andare che la casa dei genitori a Rosarno, il paese dove sono rimaste a vivere le due sorelle, Girolama e Marina. Non ha più né un lavoro, né una famiglia. Ma gira con una pistola in tasca, pur non avendo un porto d’armi. È una Beretta 7.65 con la matricola abrasa. Quella che scaricherà di fronte al Parlamento contro due innocenti colpevoli di vestire l’uniforme dello Stato. Dirà ieri ai pm di averla acquistata nell’angiporto di Genova nel 2009. Anche se non gli crede nessuno. Perché — sostengono i carabinieri — quella pistola ha le stimmate dell’arma che arriva dritta dritta dal supermarket Calabria, dove è merce comune.
Del resto, che se ne faccia di quell’arnese, Luigi non è in grado di spiegarlo. Mentre è un fatto che sa usarla. Anche se — giurano i cugini che lo riaccolgono a Rosarno — l’uomo che torna a casa dopo vent’anni non sembra avere affatto il tratto sociopatico e ossessivo del “lone wolf”, del lupo solitario che cova vendetta e in cui deciderà di trasformarsi in piazza Montecitorio. Al contrario, — raccontano il padre Michelangelo e la madre Polsina — Luigi continua a sbattersi tra la Calabria e il Piemonte, dove va a trovare il figlio quando riesce, per mettere insieme qualche lavoretto che gli consenta di continuare a onorare l’assegno alimentare che, ogni mese, fa avere ad Ivana per il figlio. Anche perché nel frattempo ha debiti con Equitalia per 5mila euro.
È un fatto che nessuno intercetti la sua deriva. L’attimo in cui il suo fallimento trova finalmente un solo colpevole. Il Palazzo. La Politica. Né che qualcuno colga le pulsioni suicide che — dirà lui nel corso della sua confessione — avrebbero dovuto sigillare il suo gesto. E a cui — come per la pistola — i carabinieri tendono a non credere, anche perché nessuno avrebbe visto davvero Luigi puntarsi alla testa un’arma peraltro ormai scarica. I prossimi giorni diranno dunque se a questo canovaccio manca o meno ancora qualche pezzo in grado di modificarne il segno e il senso. Se insomma nella solitudine dell’uomo arrivato da Rosarno non abbiano fatto capolino interferenze. A oggi, si può dire che la storia di Luigi racconta ciò che mostra. E ce n’è già abbastanza per non tirare alcun sospiro di sollievo.

La Repubblica 29.04.13

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“Ci pensavo da due settimane a cinquant’anni io non ho niente mentre loro si mangiano tutto”. Preiti ai pm: dovevo suicidarmi ma ho finito i colpi, di MARIA ELENA VINCENZI

«Io ho cinquant’anni e sono ancora costretto a vivere con i miei genitori. I politici invece no, loro pensano solo a se stessi, guadagnano un sacco di soldi e mangiano alla faccia nostra e noi, intanto, siamo nei guai». Luigi Preiti spiega così a pm e carabinieri il perché del suo gesto, che ieri lo ha portato a sparare sette colpi contro due carabinieri in servizio davanti a Palazzo Chigi. Gli inquirenti lo sentono all’ospedale San Giovanni dove è stato portato per le medicazioni, nella colluttazione per bloccarlo, è stato lievemente ferito. Preiti, 49 anni ex muratore calabrese, è lucido, vigile, coerente. Non piange, risponde in modo chiaro alle domande. Sembra perfettamente cosciente, non è sotto shock. È seduto su una sedia, apparentemente tranquillo, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le mani strette. Non ha un attimo di esitazione. Non lascia trasparire alcun sintomo di una qualche patologia. Che, infatti, non ha: nessuna cura psicologica, nessun disagio segnalato. Soltanto ieri, i medici romani gli hanno diagnosticato una forma di depressione.
«Avevo pianificato tutto — racconta — Ci riflettevo da circa due settimane. Tutto era iniziato pensando che avrei dovuto dare un segnale forte per cercare di fare sentire la mia voce, la mia disperazione. La mia situazione, la separazione da mia moglie e mio figlio e il mio ritorno dai miei, in Calabria, la disoccupazione dalla quale non riesco a uscire mi hanno frustrato molto. Volevo che qualcuno si accorgesse di me, ho fatto tutto da solo. L’arma ce l’avevo, l’ho presa 4 o 5 anni fa al mercato nero di Genova». È nato così, nei giorni scorsi, nella monotonia delle giornate passate al bar a giocare al videopoker, il folle progetto di Preiti, muratore emigrante costretto a tornare a casa dai genitori. A 49 anni. «Volevo fare un gesto eclatante, lo progettavo da giorni. E ho pensato che oggi fosse il giorno giusto per manifestare la mia rabbia contro le istituzioni: il governo stava giurando. Volevo sparare a un politico e poi togliermi la vita, ma sono rimasto senza colpi». Cosa non vera perché in tasca aveva ancora diversi proiettili. Forse non ha avuto il tempo, forse il coraggio, forse la disperazione. La stessa che, però, lo ha convinto a pianificare tutto.
Sabato mattina è deciso a farlo. Si sveglia presto. «Sono andato in macchina alla stazione e ho preso il treno delle 8.55 per Roma. Arrivato nella capitale ho trovato un albergo vicino alla stazione dove ho passato la notte. Stamattina (ieri, ndr) intorno alle 9, ho liberato la stanza, fatto la valigia e sono uscito per andare a Palazzo Chigi ».
Voleva uccidere un politico, uno a
caso. «Non ne avevo uno in mente, andava bene chiunque. Non era importante la persona, lo era il gesto. Io non odio nessuno. Volevo solo dare un segnale». Lo dice come se fosse una cosa normale. Ma è domenica mattina: politici su piazza Colonna non se ne vedono. «Quando mi sono accorto che non c’era nessun deputato, nessun ministro, nessun senatore, ho puntato verso i carabinieri e ho fatto fuoco». Ma su quegli attimi, quelli della sparatoria, i ricordi si fanno più opachi. «Non ricordo bene cosa è successo in quegli istanti, ricordo solo di aver premuto il grilletto».
Il procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e il pm Antonella Nespola gli dicono che uno dei due carabinieri è ricoverato in gravi condizioni. «Mi dispiace, mi dispiace davvero — dice con la voce strozzata dalla commozione — Chiedo scusa. Non ce l’avevo con loro, ma loro stavano lì, davanti al palazzo e io dovevo fare qualcosa». Gli inquirenti, di fronte a quella lucidità, si stupiscono, gli chiedono se si rende conto di ciò che ha fatto. «Sì. Ne pagherò le conseguenze, tanto non ho più nulla da perdere». L’interrogatorio è quasi finito. Preiti chiede ai pm e ai carabinieri del nucleo investigativo se è il caso di avvisare la famiglia, ma l’istante dopo si pente: «No, come non detto, tanto a nessuno importa di me».

La Repubblica 29.04.13