Tanti fatti significativi fanno sperare che possa riprendere il difficile cammino unitario tra i tre principali sindacati italiani. Sembra che si possa porre fine a un’epoca fatta di accordi separati, non solo tra i metalmeccanici o nel commercio, ma anche tra le Confederazioni. Ha inciso con tutta probabilità in questa ripresa non solo basata su un dialogo costruttivo, ma anche su scelte concrete, la constatazione che le esperienze degli ultimi anni non hanno certo consegnato a Cgil, Cisl e Uil un ricco bottino fatto di risultati e successi. Un milione di licenziati, un esercito di precari, tanto per segnalare due dati, danno l’idea dell’indebolimento dell’azione sindacale. Non è riuscita a incidere né l’iniziativa di chi, come Cisl e Uil, pensava perlomeno di limitare i danni, aderendo all’invito alla complicità proposto dal ministro del lavoro del centrodestra Maurizio Sacconi, né l’iniziativa di chi come la Cgil ha cercato di promuovere una svolta mobilitando la propria gente e avanzando proposte complesse come un nuovo «Piano del lavoro ». È vero che la tumultuosa crisi economica, l’assenza di interlocutori governativi seri, ha pesato sul povero bilancio sindacale. Eppure sono molti quelli che pensano che se ci fosse stata una piattaforma e una mobilitazione sostenute da uno schieramento unitario, le cose avrebbero potute andare in modo diverso. Fatto sta che il movimento sindacale non è più considerato, da molto tempo a questa parte, un interlocutore essenziale, decisivo. Il termine «concertazione» è stato annullato, sbeffeggiato come appartenente a un epoca giurassica. Ed è venuto alla luce un altro aggettivo per definire il ruolo del sindacato: «anacronistico ». Ecco perché sarebbe importante inserire, nel bel mezzo di un inquietante panorama politico, un’inversione di marcia. Aiutata, in questo caso, anche da un atteggiamento diverso assunto dalla Confindustria di Giorgio Squinzi. Tra i primi fatti bene auguranti appare la revisione di un accordo sulla produttività, già oggetto di una versione separata, firmato ora anche dalla Cgil. Una partita questa che dovrebbe dare impulso al raggiungimento di accordi aziendali, facilitati da una detassazione, nelle purtroppo non molte (in questa fase di crisi acuta) imprese disponibili. Senza per questo, assicura la Cgil, ridimensionare il peso del contratto nazionale. Un altro evento positivo è rappresentato poi dall’accordo firmato con la Finmeccanica che riconosce all’organizzazione dei lavoratori la possibilità di mettere il naso nelle scelte strategiche della Holding attraverso un confronto preventivo. Un ritorno par di capire a quei «diritti d’informazione» rivendicati in anni lontani e che sembravano caduti nel dimenticatoio. Accompagnati da un rapporto diretto con tutti i lavoratori chiamati a esprimere il proprio parere anche attraverso la forma del referendum. Un contributo, sia pure parziale (se si ipotizza come sarebbe importante un ruolo di base propositivo e non solo limitato a un sì o un no), alla democrazia sindacale. Il tutto in una categoria come i metalmeccanici un tempo punta di diamante della riscossa unitaria, oggi sovente protagonisti di rapporti interni improntati alla sordità e contestazione reciproca. L’elemento decisivo di questa ripresa è dato però da un possibile progetto sulla rappresentanza, cioè sulla verifica esatta della forza dei propri iscritti e sulle regole nel costruire un rapporto con l’insieme dei lavoratori. Un modo per ri fondare e allargare una forza organizzata evitando il rischio di un progressivo ridimensionamento collegato ai fenomeni di frammentazione e precarizzazione dei lavori. Tematiche sulle quali potrebbe esprimere una parola decisiva l’annunciata prossima riunione congiunta dei gruppi dirigenti Cgil, Cisl e Uil convocati per la prima volta insieme dopo ben otto anni di «mini-divorzio». C’è chi ha messo in relazione questo tentativo di ricomposizione sindacale con quanto avviene in campo politico con l’esperimento del governo Letta. Sembra un’equazione ardita. E ad ogni modo per diradare qualsiasi sospetto sarebbe utile che da questo «vertice» unitario uscisse un’autonoma piattaforma magari essenziale, diretta proprio al nuovo governo Letta-Alfano, sui temi più urgenti, cominciando da quelli che affliggono i lavoratori in cassa integrazione che rischiano di rimanere anche senza quel povero sostegno. Per non parlare dell’esercito dei precari non certo aiutati dalle due riforme della ministra Fornero. Ha scritto a questo proposito l’ottimo Dario De Vico del «Corriere della sera» che aprendo questa nuova fase i sindacati supererebbero «lo stato di afasia subentrato dopo l’exploit elettorale di Beppe Grillo». Questo perché «in una prima fase post-urne anche all’interno delle confederazioni c’era stata la tendenza a «dimettersi » e a considerare il Movimento 5 Stelle come legittimo rappresentante del “disagio”». Invece ora la Camusso avrebbe deciso di non «spostare ulteriormente a sinistra la Cgil per inseguire i grillini, bensì di riprendere a guardare verso Bonanni e ricostruire un’ipotesi di percorso unitario». Una lettura dei fatti che non convince. Non è tanto Grillo, quanto il «disagio» crescente nella società (al quale accenna anche De Vico) che rischia di travolgere i sindacati. E solo attraverso un’unità non formale, bensì ricca di contenuti essi possono suscitare e ritrovare forza, consenso, risultati. Lo vedremo negli appuntamenti delle prossime ore, nel primo maggio unitario di Perugia, nelle manifestazioni indette in tutta Italia, nella piattaforma per il lavoro lanciata in Basilicata. Sarà, in certi casi, come a Treviso e a Bologna un primo maggio singolare, con la partecipazione degli imprenditori. Non tanto per stabilire ipotetici patti corporativi, bensì per imprimere un’inversione di tendenza nell’economia e per testimoniare come la valanga della crisi porti alla disperazione (vedi i tanti casi di suicidio anche nel mondo dei datori di lavoro) i diversi «produttori». Che, certo, non possono lasciare a Grillo la bandiera di una nuova speranza.
L’Unità 29.04.13