«Sta maturando a livello europeo una consapevolezza: inseguire il deficit giorno per giorno porta solo a misure controproducenti, che alla fine questo deficit lo aggravano. È un cambiamento di mentalità, ha richiesto tempo, però alla fine ci stiamo arrivando. Il consolidamento fiscale è necessario, ma sui tempi si può finalmente discutere». Pier Carlo Padoan, vicesegretario generale e capo economista dell’Ocse, conferma che gli elementi per la ripresa dell’Eurozona sono ormai tutti in ordine e che è questione di mesi, purché però non ci si faccia male da soli. «Intendiamoci: bisogna mantenere gli obiettivi di natura strutturale perché solo dalle riforme viene una crescita solida e duratura, ma i tempi con cui questi obiettivi vanno raggiunti possono essere allungati. Una dilazione è già stata concessa ad alcuni Paesi come Grecia e Portogallo: l’Ocse chiede che questa possibilità sia generalizzata a tutta l’area euro».
Italia compresa?
«Certo. Il nostro Paese sta già raggiungendo un obiettivo molto importante, quello di uscire dalle procedure per deficit eccessivo aperte nel momento più difficile della crisi. Ora potrà chiedere di entrare a far parte a pieno titolo fra i Paesi per i quali si prevede l’allentamento del vincolo deficit/Pil».
Addio rigore del 3%, o almeno arrivederci fra qualche anno?
«Non si corregge la recessione se il ciclo è negativo. Bisogna perseguire l’aggiustamento del deficit, solo che va depurato degli effetti della recessione, bisogna cioè valutarlo in termini strutturali. Con il Paese in crisi diminuiscono le tasse versate, e la risposta non dev’essere quella di imporre nuove restrizioni».
Perché così non se ne esce?
«Aggravano anziché risolvere i problemi. Noi raccomandiamo che gli obiettivi siano fissati in termini strutturali: non bisogna inseguire il ciclo verso il basso. Va ricordato che l’Eurozona è, fra le grandi aree mondiali, quella che ha fatto più progressi nel consolidamento fiscale. C’è ancora spazio da percorrere ma in molti Paesi, Italia compresa, il rapporto debito/Pil presto comincerà a scendere».
Presto? Uno, due anni?
«Qualcosa del genere, e ciò avverrà malgrado il fatto che la recente misura per la restituzione dei debiti alle imprese comporti un minimo rialzo del debito. D’altronde è una misura importante perché tonifica l’economia. Molte altre ne servirebbero a livello europeo: finora i costi dell’aggiustamento dell’Eurozona sono caduti sulle spalle dei Paesi in crisi, Grecia, Spagna, anche Italia, a costo di minare profondamente l’ordine sociale. È tempo che le nazioni in surplus facciano la loro parte. La Germania potrebbe favorire l’aumento dei salari per aumentare la domanda interna, una misura dalle ripercussioni positive per l’intera area euro: gli altri aumenterebbero l’export verso Berlino».
Non sarà facile spiegare ai tedeschi che dopo tanti sforzi e sacrifici devono spendere di più per aiutare i cugini del sud…
«Ma molte misure sarebbero in primo luogo nel loro interesse. La Germania dovrebbe accelerare gli investimenti interni per creare un volano favorevole a livello continentale, liberalizzare con più convinzione il settore dei servizi, intraprendere programmi infrastrutturali. L’Italia ne trarrebbe beneficio per la sua vocazione all’export purché accresca gli sforzi per migliorare la produttività, incrementare gli investimenti delle imprese, spingere sulla ricerca, anche solo, se non vogliamo parlare di misure troppo costose, migliorando l’allocazione del lavoro. La
performance esportatrice italiana potrebbe essere assai superiore a quella attuale, e si aprirebbero mercati in Russia, Brasile, India, economie in forte crescita».
A proposito di benefici che vengono da lontano, è vero che lo spread italiano migliora perché sono arrivati i soldi dei giapponesi, creati con la nuova politica monetaria espansionista del premier Abe?
«Nel mondo circola moltissima liquidità, non solo giapponese, in cerca di rendimenti interessanti. L’area euro con l’aumento del sentiment di fiducia degli ultimi mesi, e l’Italia grazie ai miglioramenti conseguiti, sono entrate fra le mete di questa corrente finanziaria. E questo coincide con il fatto che il Paese sta faticosamente ritrovando la sofferta stabilità istituzionale».
Il suo collega economista Roubini ha lanciato sul nostro giornale un appello perché istituzioni semi-dormienti come la Banca europea degli investimenti si scuotano e diano il loro contributo decisivo allo sviluppo. Si sente di sottoscriverlo?
«Ci sono risorse cospicue a livello europeo che potrebbero essere mobilitate. Non solo la Bei: pensiamo ai fondi strutturali che aspettano un’adeguata capacità progettuale Stato per Stato ».
La Repubblica 25.04.13