È probabile che un governo di coalizione fra Pd, Pdl e Scelta Civica ottenga il voto di fiducia superando lo scoglio dei franchi tiratori. Ma non sarà certo facile per il nuovo governo del Presidente darsi un programma secondo “le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune”.
Il documento dei saggi, che dovrebbe offrire la base di questo programma, non definisce priorità. La sua parte economica formula ben 32 proposte, la cui attuazione richiederebbe almeno due, forse tre legislature. Soprattutto non distingue fra interventi d’emergenza per il rilancio dell’economia, misure congiunturali volte a bloccare la spirale recessiva e interventi strutturali, che vogliono migliorare la competitività del nostro Paese di qui a 4-5, fino a 10 anni.
Non manca il buon senso e molte proposte sono condivisibili, ma non c’è una diagnosi che potrebbe guidare una gerarchia di misure e soprattutto dettare la loro scansione temporale. La parte istituzionale non si esprime sulla riforma più importante, il cambiamento di una legge elettorale antidemocratica, per via del premio di maggioranza indipendente dal numero di voti effettivamente percepiti, e al tempo stesso incapace di fornire stabili maggioranze. Provando a fare un’intersezione fra i programmi elettorali (e i punti post-elettorali) dei tre partiti che, con ogni probabi-lità, sosterranno il nuovo governo ci si ritrova con un insieme vuoto.
Sia Pd che Pdl hanno maggiori punti in comune con il Movimento 5 Stelle che tra di loro. Il Pd condivide con Grillo la riduzione dei compensi dei parlamentari, la scelta di almeno ridurre (M5S vorrebbe abolirlo del tutto) il finanziamento pubblico ai partiti, l’abolizione o riordino delle Province, l’adozione di leggi anti-corruzione e contro il conbo.
flitto di interessi, il rafforzamento degli ammortizzatori sociali e la richiesta di invertire la tendenza a ridurre gli investimenti in istruzione dando più fondi alla scuola. Pdl e Grillo si ritrovano fianco a fianco nel chiedere l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, il ridimensionamento se non lo smantellamento di Equitalia e l’adozione di politiche migratorie più restrittive. Quando si mettono insieme Pd e Pdl è molto più difficile trovare intersezioni tra insiemi di proposte: rimangono solo la richiesta di saldare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese (operazione già avviata dal governo dimissionario) e un generico potenziamento della formazione tecnica superiore. Per questo è un gran bene che il nuovo governo del Presidente nasca come un governo politico: la politica è proprio l’arte di trovare intese e compromessi, come ci ha giustamente ricordato Napolitano. Avranno parecchio da lavorare. Mentre i tecnici possono favorire la ricerca di accordi su di una qualche visione condivisa delle cose più urgenti da fare.
Il nostro paese è avviato nel 2013 a vivere il sesto anno di una crisi pesantissima, che ha messo in ginocchio molte famiglie. I primi tre mesi di quest’anno sembrano avere riportato indietro le lancette dell’orologio a un primo trimestre del 2009 da incubo.
Dobbiamo assolutamente scongiurare una nuova spirale recessiva. Questa è la priorità numero uno. C’è un’emergenza sociale che va affrontata assieme a quella economica, testimoniata dall’impennata dei dati sulla povertà, comunque questa venga misurata, di cui si è già dato conto su queste colonne. Al tempo stesso il processo di consolidamento fiscale non ci concede risorse per misure universali di contenimento della povertà. In questo contesto, l’unico modo di fronteggiare l’emergenza sociale consiste nel puntare tutto sul lavoro e, soprattutto, sulle opportunità di impiego che si possono offrire a chi è ai margini tra lavoro e non lavoro. Questo spinge a concentrare gli interventi su chi oggi è ai minimi retributivi. Un incentivo condizionato all’impiego, sotto forma di sussidio all’occupazione (anziché alla disoccupazione) o credito di imposta per chi non è incapiente, avrebbe proprio questa funzione. Ridurrebbe il costo del lavoro e incentiverebbe l’emersione, condizione indispensabile per ricevere il contributo pubblico. Dovrebbe essere accompagnato dall’introduzione di un salario minimo per evitare che l’intero trasferimento finisca nelle tasche del datore di lavoro. Oltre che contribuire a ridurre in modo fiscalmente sostenibile la povertà (è una misura di emersione), questo intervento rilancerebbe i consumi fronteggiando l’emergenza economica: la propensione al consumo tra le famiglie povere è quasi il doppio di quella fra le famiglie con redditi medio-alti. I costi di questo intervento
sarebbero relativamente limitati e potrebbero essere coperti attingendo al bacino, mal speso, di fondi per le politiche attive del lavoro.
Bisogna anche agire più direttamente sulla domanda di lavoro delle imprese, oggi bloccata da difficoltà nell’accesso al credito. Il documento dei saggi è stranamente bancocentrico su questo aspetto: ritiene che le imprese debbano continuare a trovare liquidità per finanziare i propri investimenti attraverso il sistema bancario o la Cassa depositi e prestiti. Questa è una visione che non tiene conto dell’emergenza: a breve banche piene di sofferenze, che devono ricapitalizzarsi e che non fanno più utili difficilmente potranno dare alle imprese la liquidità di cui hanno bisogno. Occorre allora trovare subito canali di finanziamento alternativi per le imprese, ad esempio permettendo ai fondi pensione di cambiare il profilo di investimento corrente investendo di più in obbligazioni societarie e azioni, oltre che permettere la nascita di fondi chiusi che investano in consorzi di piccole imprese. Importante anche che le imprese si sentano d’ora in poi tutelate riguardo alla puntualità dei pagamenti della pubblica amministrazione, un aspetto che le misure recentemente adottate dal governo Monti non sembrano prendere in considerazione, prese come sono a risolvere il pregresso piuttosto che guardare avanti. Una delle maggiori fonti dei ritardi nel saldare i debiti commerciali nella Pa risiede nel fatto che le amministrazioni stilano bilanci di competenza (in cui possono prendere impegni anche quando non ci sono risorse immediatamente disponibili) anziché di cassa. Passando ad una contabilità di cassa, le amministrazioni locali sarebbero in grado di prendere con privati solo impegni che possono mantenere fin da subito, riducendo di molto l’incertezza delle imprese. Questa innovazione servirebbe anche a rendere più efficaci, a lungo andare, i controlli sulla spesa degli enti locali. Una parte non piccola nei ritardi dei pagamenti è legata a tagli fatti solo sulla carta in tutti questi anni.
Un lavoro che valga di più per chi oggi ha basse retribuzioni, linfa vitale alle imprese anche al di fuori del sistema bancario e maggiori certezze sui pagamenti futuri della Pa: questa potrebbe essere la filosofia delle misure immediate per interrompere la spirale recessiva. Una cosa assolutamente da evitare è pensare che l’emergenza possa essere affrontata con le misure tampone. Non è rifinanziando in qualche modo la cassa integrazione in deroga, affrontando l’irrisolto nodo esodati o trovando i fondi per i contrattisti in scadenza della Pa che si uscirà dall’emergenza. Inevitabile intervenire su questi aspetti, ma non è certo con le pezze (che sono spesso peggio del buson) che si può scongiurare il protrarsi di questa interminabile recessione.
La Repubblica 24.03.13