Il Presidente della Repubblica resterà in carica sette anni. Più di una legislatura. Dovrà affrontare un tempo molto difficile: una crisi profonda del sistema politico, una crisi economica come non si ricorda dal dopoguerra, un passaggio epocale per l’Europa e il suo modello sociale. I cittadini italiani guardano al Parlamento con la speranza che, dopo questo lungo, insopportabile stallo sul governo, venga eletto un Capo dello Stato degno e autorevole all’estero.
Un Capo dello Stato fedele alla Costituzione, coerente nella difesa dell’unità nazionale e dell’equilibrio tra i poteri, capace di svolgere la più alta funzione di garanzia pur provenendo da un parte politica. Qualcuno insiste che, tra le credenziali del prossimo presidente, vi sia un’estraneità ai partiti, quasi che la militanza politica fosse una colpa da scontare. Certo, i partiti sono oggi al punto più basso di popolarità: perché i cittadini pagano i costi del collasso della seconda Repubblica e delle mancate riforme, perché la politica nel suo insieme si dimostra impotente nella soluzione di molti, troppi problemi concreti. Il turbo-liberismo di questi anni – che ha provocato la crisi e sottomesso prima la politica, poi la stessa economia reale, al dominio della finanza – ha tolto potere alle democrazie. Il resto del discredito, nel nostro Paese, è stato aggiunto dalla corruzione, dall’occupazione impropria di poteri pubblici, dalla rottura delle reti di solidarietà, dal mancato ricambio delle classi dirigenti, ma anche dalla cultura della contrapposizione tra politica e antipolitica, tra partiti e società civile. Tutto ciò ha alimentato il ribellismo e il populismo, ma non ha portato a soluzioni. Solo macerie su macerie. Non tutti però hanno le stesse colpe. La politica non è la notte scura dove tutte le vacche sono nere. Se non si distingue, non si ricostruisce. Non è vero che c’è una politica contro la società civile: questa è la teoria di chi non vuole cambiare. Sia chiaro, il rinnovamento politico e istituzionale è oggi una necessità. Come è indispensabile un governo di cambiamento. Nelle condizioni date tutto ciò sarà difficile, ma è doveroso cercare di aprire un nuovo passaggio. Di muovere il Paese. Di portarlo fuori da questo collasso. Ci auguriamo che la scelta – a partire dalla proposta che farà Pier Luigi Bersani – sia anzitutto all’altezza del ruolo e della dignità di un presidente della Repubblica, che speriamo gli italiani apprezzeranno nel tempo. Può essere un uomo delle istituzioni, fuori dai partiti. Può essere una personalità esterna al Parlamento. Ma sarebbe assurda una pregiudiziale «contro i partiti». Sarebbe figlia della cultura che ha contribuito, non poco, a portarci a fondo, in un luogo dove la crisi economica rischia drammaticamente di combinarsi con un nuovo cesarismo.
Il Parlamento deve fare in fretta a eleggere il presidente, e poi a dar vita al governo. Ma deve assumersi una responsabilità. Non si sceglie un presidente sulla base di un tele-voto. L’elezione di secondo grado è voluta dalla Costituzione proprio perché venga valutata e deliberata da un consesso rappresentativo di persone già inserite nelle istituzioni. Il presidente dovrà farsi stimare nel tempo, attraverso le scelte che compirà nel suo ruolo di garante. Può anche avere un basso consenso di base. Ma i grandi elettori devono sapere che l’eletto ha le potenzialità per farsi apprezzare, e soprattutto per dare stabilità a un Paese che oggi rischia moltissimo. L’elezione al primo scrutinio sarebbe una buona iniezione di autorevolezza e di legittimità. E sarebbe anche la giusta risposta a chi non smette di invocare il sistema presidenziale. Noi, amanti della Costituzione più bella del mondo, vogliamo continuare ad avere un presidente-garante. Non un presidente che dipende dai sondaggi, come sarebbe un Capo dello Stato eletto direttamente dal corpo elettorale.
L’Unità 17.04.13