attualità, politica italiana

"Non si tratta solo di eleggere un presidente", di Gianni Riotta

In 48 ore il Partito democratico gioca una partita che peserà a lungo sul futuro italiano e che, altrettanto a lungo, determinerà l’identità del Pd, la sua strategia, il suo modo di esistere. Molti dei nomi che circolano in queste ore per il Quirinale, per la successione del saggio presidente Napolitano, sono di politici perbene, dagli ex premier Prodi e Amato, all’ex presidente del Senato Marini, alla senatrice Finocchiaro.

E  anche nella lista dei nove prescelti da Beppe Grillo e dai suoi militanti M5S, tra giuristi come Rodotà e Zagrebelsky e lo stesso Prodi, si nomina Emma Bonino, apprezzata ex Commissario Europeo.

Ma come sa bene il segretario Bersani, il nome che il Pd dovrà indicare al Parlamento ha una doppia importanza. L’uomo, o la donna, che andrà al Quirinale rappresenterà l’Italia in sette cruciali anni in cui l’Europa diventerà nuova comunità politica, dovrà ritrovare in Patria dialogo e sviluppo, ma soprattutto darà – al di là delle sue intenzioni – il segnale per un possibile governo a quasi due mesi dal voto.

Nell’indicare un Presidente, il Pd sceglierà che partito essere. Ogni formula è legittima, ma la rotta presa non si invertirà senza fatica. Rompere con il centro-destra, non con Silvio Berlusconi o il suo Pdl ma con la comunità di cittadini che vota a destra, bocciandola come «non democratica», implica un Pd militante, sintonizzato sugli umori di base e iscritti, meno su quelli degli elettori, favorevoli a intese parlamentari per sbloccare lo stagno, minaccioso in crisi economica.

I giornali indicano in Romano Prodi il candidato che incarnerebbe questa scelta per il Pd, lettura paradossale visto che Prodi, tecnocrate cattolico raziocinante, ha vinto le elezioni contro Berlusconi nel 1996 e nel 2006 proprio con i voti centristi, perdendo poi il governo per i capricci della sinistra radicale.

L’altra scelta è riconoscere, con pragmatismo, la situazione di arrocco del 24 febbraio, prendere atto dei no irridenti di Grillo e Casaleggio e fare quel che i padri del Pd, la vecchia Dc e il vecchio Pci, dal 1946 al 1994 tante volte hanno fatto, rinunciare agli slogan e lavorare nella realtà. Per i militanti che si sono sacrificati con entusiasmo potrebbe non essere gratificante, per i cittadini che vedranno un governo che mette mano all’economia, finalmente, sarebbe una preoccupazione in meno.

In questo caso il candidato favorito dai media sarebbe Giuliano Amato, e anche qui non manca il paradosso, visto che a guardare a tanti voti cattolici e moderati sarebbe chiamato un laico rigoroso (malgrado una sensibilità seria sull’aborto), l’ex direttore del Centro Studi della Cgil, un uomo della classica sinistra europea.

Il doppio paradosso, in realtà, non ha ragion d’essere, arrivati al Quirinale i candidati responsabili, da Prodi ad Amato, sanno di dovere guardare all’interesse nazionale e lo faranno. La scelta strategica di Bersani e dell’intero Pd è dunque, più che il nome, che «mandato» dare all’eletto, e in che direzione cercargli una maggioranza. Per un governo largo, sia pure a tempo, o per un governo che viva, come in Sicilia, con le mance di Grillo?

Il Pd è il partito che con più forza ha pagato prezzo al sacrosanto rinnovamento della politica e alle sue code populiste. Veltroni e D’Alema, che sono stati rispettivamente il software e l’hardware dei partiti nati dal Pci, hanno rinunciato al Parlamento. Alla Camera e al Senato sono andati due non dirigenti Pd. In campagna elettorale non una parola è stata spesa contro Grillo, nell’illusione che M5S mordesse Berlusconi, mentre dissanguava il Pd. Molti grillini, dice lo studio dei flussi elettorali di D’Alimonte e Mannheimer, hanno votato Berlusconi nel passato, il suo braccio destro Casaleggio si candidò perfino in una lista fiancheggiatrice, la loro ostilità va alla «Kasta», non alla Destra.

Il Pd sta decidendo in queste ore come toccava un tempo alla Dc, chiamata ogni sette anni a dare, o lasciar passare, un nome per il Quirinale. Da questo nome vedremo quanto «forza di governo» è oggi, quanto capace di «egemonia» politica e culturale, nel senso dettato dal fondatore del Pci Gramsci. Gramsci sapeva che in politica si è «egemoni», non quando si persuadono gli iscritti al partito, ma quando si porta in sintonia con le proprie ragioni chi è lontano, avversario. Gramsci studiava Machiavelli, distingueva politica, morale, propaganda e temeva il populismo.

Chiunque vada al Quirinale dovrà lavorare a un governo possibile o a elezioni senza caos. Perché, e qui forse la foga post voto qualche amnesia nel Pd l’ha aperta, i problemi italiani di non crescita, stagno economico, disoccupazione e perdita di peso internazionale (vedi caso India) restano interi. Chiunque vada a Palazzo Chigi dovrà combattere la disoccupazione e per farlo dovrà leggere il rapporto McKinsey Global Institute sul lavoro di marzo (integrale http://goo.gl/5uB0x ). I 40 milioni di disoccupati del mondo industriale pagano pegno alla tecnologia, che negli Usa ha cancellato 2.000.000 di posti tradizionali, creandone meno di 500.000, tutti però per personale qualificato. Dove il lavoro c’è, i lavoratori non hanno il sapere necessario: nel 2020 agli Stati Uniti mancheranno un milione e mezzo di laureati e 6 milioni di diplomati, in Francia oltre due milioni di laureati e due e mezzo di diplomati. Da noi la situazione peggiore.

La sinistra italiana ha una lunga tradizione di lavoro sull’educazione dei lavoratori, dall’Umanitaria di Milano alle 150 ore dei metalmeccanici: la rispolveri per creare lavoro dove c’è nel mondo globale, non dove manca. Se Matteo Renzi, malgrado gli scatti che fanno arrabbiare qualcuno, piace agli elettori è perché dà l’impressione di volersi misurare con questa realtà, di non fermarsi a una sinistra industriale, ma di vivere in quella post industriale di oggi. Inutile dividersi se avesse ragione la Thatcher o no, se Blair è stato leader laburista grande o no. Quella stagione è finita, la sinistra deve saper vivere in un mondo con più robot e meno operai. Vedremo se il Pd sarà capace di questo salto perché stavolta, come cantavano gli Inti Illimani in un altro tempo: «Non si tratta solo di eleggere un Presidente…».

La Stampa 16.04.13