attualità, politica italiana

I sette anni di Re Giorgio l’ex “comunista moderato” che ha conquistato il Paese, di Filippo Ceccarelli

Per quanto il finale sia amaro, che più amaro forse non si potrebbe, e perfino «surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente», ecco, come sempre toccherà alla storia il giudizio definitivo. Ma fin d’ora, e senza troppi timori, ci si può prendere la responsabilità di sostenere con dovizia di pezze d’appoggio che il settennato di Giorgio Napolitano è stato politicamente lunghissimo, quasi tutto eccellente, per certi versi magistrale e a tratti anche straordinario, nel duplice senso di inconsueto ed eccezionale nel suo dispiegarsi.
Se proprio bisogna pescare il pelo nell’uovo, il dubbio, il sospetto, o forse la maliziosa suggestione è che le cose abbiano cominciato a girare male – intercettazioni e polemiche con la Procura di Palermo, morte di D’Ambrosio, malevolenze grilline, dissapori con Monti, equivoci con il Pd, impotenza e sfinimento dopo le elezioni, propositi poi
rientrati di anticipare le dimissioni, accuse per la commissione dei dieci presunti saggi o facilitatori, critiche sulla grazia concessa in extremis agli americani del sequestro di Abu Omar – dal momento in cui (inverno 2012) i mezzi d’informazione, a partire dal
New York Times,
hanno cominciato a chiamare Napolitano “Re Giorgio”.
E non per le antiche dicerie pseudodinastiche che lo volevano figlio naturale di Umberto di Savoia, maturate in tempi remoti ai margini di un Pci ancora intriso di diffidenze staliniste, ma perché fino a quando il presidente della Repubblica ha svolto da par suo il ruolo del contrappeso di Berlusconi gli equilibri erano chiari e visibili; e poi invece, dopo la fuoriuscita del Cavaliere, molto meno. E quella che per un tempo assai lungo si è potuto considerare a pieno titolo un’“autorità”, è diventata per forza di circostanze un “potere” – e il potere trova sempre i suoi detrattori, ed è anche un bene che sia così.
Però questo non toglie che per intensità i sette anni di Napolitano sono durati almeno il doppio, e che in quello che una volta lui stesso ha definito l’”angoscioso presente”, giorno dopo giorno, monito dopo monito, consiglio discreto dopo consiglio segreto, controfirma pacifica dopo controfirma al calor bianco, egli sia rimasto il primo della classe che è sempre stato nella sua vita. Un uomo molto preciso, anzi pignolo, anche superbo ma proprio per questo contegnosamente solido, costantemente dedito a perfezionare il rapporto tra forma e sostanza. E soprattutto: una persona seria e dignitosa in un paese sempre più di buffoni e
cialtroni.
La sintesi è brutale. Ma nell’Italia dei talk-show e dell’”Isola dei famosi”, del lifting ostentato dai capi, delle pernacchie di Bossi e delle Asl calabresi, del bunga bunga, di Schettino e delle varie cricche o P3, ben prima che dai pallidi, fragili e svuotatissimi partiti Napolitano fu indicato per quel posto da Carlo Azeglio Ciampi come il classico uomo d’altri tempi. Non esattamente come l’erede di una cultura politica, ma il sopravvissuto di una classe di uomini politici ormai in via d’estinzione. Una figura che poteva tenere assieme il paese con il fil di ferro dell’esperienza, della cultura e dei sacrifici effettuati in un tempo di ferro e di fuoco, e con duttile intransigenza adattare quel passato al presente.
Allo stesso modo sono poi stati gli eventi tempestosi di questi sette anni ad aver trasformato, o per meglio dire ad aver costretto questo ottantenne comunista dai tanti aggettivi (“inglese”, “moderato”, “migliorista”, “riformista”, “liberale”, “napoletano”) a farsi leader nazionale e rassicurante. Il processo è assai ben descritto nell’introduzione della recentissima biografia di Pasquale Chessa, “ L’ultimo comunista” (Chiarelettere, 248 pagine, 15 euro), che di Napolitano tratteggia le radici anche psicologiche e nella vita del personaggio individua bene le costanti del suo settennato.
Certo, è stato per il presidente difficile e faticoso. Dopo che ebbe un malore, a Bolzano, nel 2008, una lunga cerimonia, un caldo terribile, la moglie Clio disse che il Quirinale “non è una passeggiata di salute”. E tuttavia, l’imprevedibile sorpresa è che quella poltrona l’ha anche reso meno freddo, meno distante, più spontaneo, quindi più amato e popolare, o pop, se si preferisce.
Pare di rivederlo, i primissimi giorni, a Napoli, tra l’atterrito e il divertito, mentre si allungava sul petto una t-shirt ricevuta in dono su cui era scritto: “Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli”. Mai metamorfosi è apparsa più lieta e insieme sorvegliata. Pochi sanno che il presidente da giovane ha recitato da attore, ma certo faceva impressione sentirlo con quel suo vocione alle prese con scolaresche, oppure vederlo indossare pettorine sgargianti,
giubbotti da top-gun, o tagliare torte a forma di stivale, o beccarsi schizzi di aranciata negli spogliatoi dopo la vittoria degli azzurri al Mundial.
Una volta, a teatro, dei bimbi di Scampia vestiti da Pulcinella si sono divertiti a stropicciargli sul volto – e lui gliel’ha fatto fare – il nerofumo di scena. E allora Clio rapidamente, affettuosamente, ma allegra, l’ha ripulito con il fazzoletto. Ed è parso di cogliere in questa scena più che un’attitudine adattarsi ai vistosi moduli correnti, l’accettazione di un’umanità fino ad allora compressa, almeno in pubblico, se non ritenuta sconveniente e dannosa. Come se nella sgangheratissima Italia d’inizio secolo Napolitano, di cui Chessa racconta l’immane traversata fra le più gloriose e terribili vicende della guerra fredda, avesse conquistato il suo cuore. Quello stesso che in questi ultimi mesi l’ha portato spesso a commuoversi.
Ci saranno tempo e modo e degne competenze per analizzare le novità costituzionali del suo settennato. Ma anche qui, con qualche sussidio documentale si azzarda l’ipotesi che la presidenza di Napolitano sia stata la più politica fra tutte quelle della storia repubblicana. Specie per quello che riguarda la partita giocata con Berlusconi, e più in generale la necessità di mantenere dei punti fermi in una situazione segnata – come volle specificare un giorno – dai “rischi di una regressione civile”.
Ed è difficile dargli torto, considerate le condizioni in cui il Capo dello Stato si è dovuto muovere, anche da parte di chi non riesce a perdonargli di aver apposto la sua firma su tante, forse troppe “leggi vergogna”, a cominciare dal Lodo Alfano e proseguendo con il legittimo impedimento, la prima cancellata dalla Corte costituzionale e la seconda da un referendum.
E le orribili norme sull’immigrazione, i pastrocchi sul federalismo, i favori di ogni tipo a Mediaset. Senza aprire discussioni sui poteri che assegna la Carta costituzionale, in diversi casi forse il Quirinale poteva fare di più. Però sulle intercettazioni e sul cosiddetto “decreto-Eluana” il presidente si è scoperto parecchio lasciando capire che avrebbe ingaggiato battaglia, andando sino in fondo. Difficile dire che cosa sarebbe successo. Così come una fitta coltre di riservatezza avvolge tuttora passaggi cruciali nei quali è possibile che Napolitano, che più di una volta il Cavaliere ha presentato come un vero e proprio sabotatore, abbia detto e fatto più di quanto gli convenisse far sapere all’esterno.
Di rilevante si sa solo che quando Berlusconi andò al Quirinale per sfogarsi sui giudici e il caso Ruby, e cominciò a fare un numero dei suoi, il presidente lo gelò: “Si calmi”. Al momento del 150° dell’unità si registra il massimo del successo demoscopico. Tra colpi di sonno, spread alle stelle, mercimonio parlamentare, manovre economiche a vuoto e intercettazioni che calavano a picco la credibilità del governo, la scelta sull’intervento militare in Libia fu praticamente gestita sul Colle, per non dire dal Colle.
Al netto delle polemiche di Di Pietro, delle corna di Bossi e delle insolenze di Grillo, è ancora troppo presto per un giudizio complessivo. Eppure, al di là di presunta arrendevolezza e astuto realismo, l’impressione è che Napolitano abbia al dunque e con indubbia abilità alternato prudenza e decisione prima per contenere Berlusconi, poi per cercare di porre riparo ai suoi guasti e quindi, allorché Obama e la Merkel non si fidavano più, per sostituirlo in modo indolore con Monti.
E qui per ora ci deve fermare. Poi forse tutto è proseguito accelerandosi in uno smottamento cataclismatico di cui l’esito elettorale è un chiaro segno; e allora nessuno più ha potuto fare nulla, nemmeno Giorgio Napolitano.

La Repubblica 14.04.13