Si sente responsabile dello stallo politico e della mancanza di un governo? La domanda va in onda al Tg1 della sera, il più seguito. «No, francamente, onestamente non mi sento responsabile per un banale motivo: io una proposta l’ho fatta. Un governo di cambiamento, convenzione e data certa per le riforme istituzionali, corresponsabilità in questo quadro di tutte le forze parlamentari. Pdl e M5S mi hanno detto no». Pier Luigi Bersani sa che questa è l’accusa che ogni giorno gli viene rilanciata (e che più gli brucia) dal Pdl e non solo dal Pdl (Matteo Renzi ieri è tornato all’attacco: o accordo con Berlusconi o voto): la mancanza di un governo a 45 giorni dal voto. Nei momenti in cui si lascia andare con i suoi più fidati collaboratori dice che è proprio questa la cosa che più lo ferisce: «Non sono la causa di questo stallo, io ho fatto tutto quello che era in mio potere per dare un governo al Paese». Ogni volta ripete che lui c’è se è utile, «altrimenti…».
Il pressing è per un esecutivo di larghe intese, il tentativo quello di intrecciare l’elezione del Capo dello Stato con la nascita di un governissimo che traghetti il Paese alle elezioni dopo aver affrontato le emergenze economiche e sociali. E allora ecco che segna di nuovo la linea di confine: «Il Presidente della Repubblica dura 7 anni e deve garantire l’unità della nazione. Un governo deve aggredire una drammatica questione sociale e mettere una nota di cambiamento nel Paese per ridare un po’ di fiducia». Capo dello Stato e Capo del governo «sono due mestieri diversi», ripete andando però oltre. Quando sarà la sciolto il primo nodo, il Quirinale, allora «un governo si farà». Quello giusto resta convinto che sia «un governo di cambiamento che possa accompagnare una fase di riforma delle istituzioni», ma se anche con il nuovo Capo dello Stato dovesse risultare una via impraticabile allora «discuteremo perché un governo a questo Paese va dato». Non ci sono out out, sembra dire, «non è una questione personale», (il senatore Miguel Gotor, suo consigliere sottolinea che se il segretario «avrà la possibilità di governare si muoverà in quel solco, se non ci riuscirà vedrete che sarà il primo a voler far giare la ruota»), anzi, «farò tutto ciò che è in mio potere per agevolare una soluzione». Ma un governo con Berlusconi non sarà lui a farlo.
Ieri mattina Bersani ha parlato a lungo con il suo maggiore alleato, Nichi Vendola – che ieri si è dimesso da parlamentare senza nascondere l’amarezza per i duri attacchi subìti per il doppio incarico – ricevendo l’appoggio su tutta la linea: sia per i criteri che dovranno guidare l’elezione del Capo dello Stato, sia sul tentativo di formare il governo una volta superato il voto per il succesore di Napolitano.
Ma sarà quella di oggi una giornata politicamente importante per il leader Pd: alle 11 incontrerà il leader della Lega Roberto Maroni che non ha mai mo- strato rigide chiusure verso Bersani pur essendo unito a doppio filo con il Pdl. «Non mi interessa chi sarà il presidente della Repubblica, mi interessa che ci sia un governo», ha detto ieri il neo governatore della Lombardia. Bersani sa che il patto Pdl-Lega è quello che tiene in piedi le Regioni del Nord e dunque non si fa troppe illusioni ma è pur vero che dall’inizio di questa complicatissimo rompicapo post-elettorale sono proprio la Lega e il M5S gli interlocutori da non trascurare. È anche questo il motivo per cui il leader Pd vuole condurre le sue consultazioni con tutte le forze parlamentari in vista del voto del 18 aprile, «perché dobbiamo trovare una figura altamente condivisa per la presidenza della Repubblica», inclusi i grillini. I capigruppo di Camera e Senato, Roberto Speranza e Luigi Zanda, hanno avanzato una formale richiesta di incontro ai colleghi del M5S, ma finora nessun appuntamento è fissato: il Movimento ha fatto sapere che andrà all’incontro soltanto una volta sentita la base sul nome da votare, mentre Grillo, tanto per distendere il clima, ha già bollato l’incontro Bersani-Berlusconi, avvenuto l’altro ieri, come un «inciucio a porte chiuse».
I fronti aperti sono molteplici, caselle da incastrare che sembrano slegate eppure sono strettamente connesse. E creano tensioni: non solo tra le forze politiche (nel Pdl i falchi lavorano affinché il Cavaliere non accetti di tenere separati Colle e governo mentre Berlusconi invita alla calma), ma anche all’interno della stessa casa democratica. Ieri l’ultima durissima polemica tra il segretario e Renzi sulla vicenda dei grandi elettori per il Capo dello Stato, diffidenze che nascono, timori che ormai nessuno nasconde più. Tanto che l’altro ieri Areadem, che fa capo a Dario Franceschini, ha riunito i suoi parlamentari, una settantina, per mettere in allerta: Quirinale, governo e partito sono tre passaggi che se governati male possono costare la pelle al Pd. Un presidente della Repubblica che sia una figura di garanzia e competenza senza cessioni al nuovismo, chiedono alla fine dell’incontro. E poi, subito dopo, un governo, «anche a guida Bersani», purché abbia un programma vero, di riforme incisive e non soltanto una funzione di traghettamento verso le prossime elezioni. Ma arrivare indenne alla fine di questo percorso, secondo Areadem, al Pd serve un punto di sintesi, una sorta di «camera di compensazione», un ponte di contatto con le altre varie anime del partito. E a questo si candida una delle più corpose anime democratiche. Resta da vedere con quali risultati.
L’Unità 11.04.13