È oramai più di un anno – dalla morte del “Caro leader” Kim Jong-il, avvenuta il 17 dicembre del 2011, che ha scaraventato su un trono sostanzialmente dinastico il giovanissimo Kim Jong-un – che la Corea del Nord oscilla pericolosamente tra timidi spiragli di apertura e dialogo e accelerazioni lungo la strada del conflitto nucleare.
Ogni volta che un gesto di distensione, a volte anche un risultato negoziale insperato, lasciava intravedere un barlume di speranza, immediatamente veniva rinnegato da un atto di ostilità tanto esplicita quanto unilaterale. Il pendolo non si è mai fermato né all’estremo del dialogo, ma neanche nel mezzo, nella ricerca di una via ragionevole che rendesse possibile la convivenza forzata.
Forzata, priva di alternative, non solo perché la geografia non è un’opinione, e la penisola coreana vede oggi divise realtà che erano unite, ma anche perché quelle due realtà – la Corea del Nord e quella del Sud – sono oggi diventate le due facce più distanti dello sviluppo del pianeta: povertà assoluta contro sviluppo frenetico; isolamento totale contro connessione globale. Quel che fino a cinquant’anni fa era simile, oggi farebbe fatica a riconoscersi, a parlarsi: tanta luce e rumore e suoni e megaschermi e pubblicità e ricchezza e competizione si vedono per le vie di Seoul, quanto silenzio e buio e miseria e vuoto si vedono (ammesso e non concesso che si riescano a vedere) a Pyongyang – che pure è la capitale dell’oligarchia privilegiata, non parliamo poi della desolazione delle campagne.
Le due facce della Corea – il regime isolato e povero del nord, la democrazia in pieno boom economico e tecnologico del sud – si guardano e si temono a vicenda, ma dividono lo stesso spazio (come una bolla di olio in un bicchiere d’acqua), e a tratti si appoggiano l’una all’altra: per una vecchia nostalgia di unificazione, che via via sbiadisce con il passare degli anni e dei ricordi di chi ha vissuto la traumatica separazione; per la voglia di normalizzare i rapporti nella regione, attraversata già da innumerevoli tensioni; per banale necessità di sussistenza, con l’affluire di preziosa valuta straniera nelle casse di Pyongyang attraverso le attività dell’area speciale di Kaesong, oggi chiusa.
E’ questo che faceva sperare che, prima o poi, il regime nord-coreano si assestasse sul punto di caduta di un realistico dialogo forzato, che avrebbe consentito un’apertura pilotata di una società ad oggi totalmente chiusa (che rischia di esplodere al primo contatto con l’esterno, alla prima incursione di internet), la sopravvivenza economica di un paese ridotto in povertà estrema, ed una forma di convivenza accettabile con gli altri paesi dell’area. Il tutto garantito dal colosso cinese, unico vero mediatore con il regime nord-coreano, che era riuscito a far camminare i difficili six party talks sul nucleare, e che invece oggi sembra interrogarsi sull’opportunità di svolgere fino in fondo il proprio ruolo regionale. Un percorso guidato, graduale, che avrebbe consentito di gestire una complicatissima transizione e un costosissimo processo di riunificazione anche in assenza di un’integrazione regionale che la accompagnasse (come l’Unione europea ha fatto per la Germania).
Non è così che è andata, le scelte di Pyongyang non hanno seguito tracciati razionali. A forza di far oscillare il pendolo, l’arco che si è disegnato ha assunto contorni sempre più enormi, più incontrollati, fino ad arrivare all’escalation di questi giorni, e poi all’annuncio dell’autorizzazione di un attacco nucleare contro gli Stati Uniti – percepiti come potenza di “occupazione” della Corea del Sud, e viene da chiedersi se ci credano davvero, le oligarchie nordcoreane, o se si appoggino al cliché pur essendo consapevoli della sua assurdità.
Si può discutere quindi oggi di quanto siano fondate, o reali, le minacce alla sicurezza che Pyongyang agita contro i propri vicini – la Corea del Sud, il Giappone, gli Stati Uniti (vera potenza del Pacifico, come questa crisi dimostra). Ma il fatto che il grado di razionalità del comportamento del regime sia vicino allo zero, e l’alta tensione attraversa tutta la regione del nord-est asiatico, rende comunque pericolosissimi gli sviluppi della crisi, a prescindere dalle capacità tecnologiche e dai mezzi militari della Corea del Nord. Basta un cerino, e il pagliaio va a fuoco, coinvolgendo l’area a più alta densità di sviluppo del pianeta, e le due massime potenze globali – Stati Uniti e Cina.
E ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, che la priorità assoluta è oggi rilanciare seriamente, coerentemente e con la massima urgenza, quelle politiche di disarmo e non-proliferazione nucleare che dopo lo slancio del post-guerra fredda e del discorso di Praga di Obama nel 2009 sembrano essersi incagliate tra le maglie delle minacce iraniane o nord-coreane. Dovremmo oggi capire che non c’è deterrenza che tenga, di fronte all’irrazionalità delle scelte di regimi che poco – se non nulla – hanno da perdere. L’unica via per non ritrovarci, nei prossimi anni o decenni, a vivere ancora l’incubo della distruzione nucleare è smantellare gli arsenali, sotto qualsiasi bandiera siano. Meno armi nucleari ci saranno al mondo, più il mondo sarà sicuro. E’ di una banalità disarmante.
da Europa Quotidiano 05.04.13