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"La sinistra e la destra", di Claudio Sardo

Il merito di Matteo Renzi è di aver indicato, senza ipocrisie, una strada diversa da quella di Pier Luigi Bersani e di aver così aperto un confronto pubblico sulla strategia del Pd. Per il sindaco di Firenze bisogna scegliere tra l’alleanza con Berlusconi e le elezioni anticipate. Una terza via non esiste, il «piano A» proposto da Bersani e approvato nella direzione Pd è a suo giudizio fallito, dunque occorre cambiare l’offerta politica. Anche perché il percorso del governo si incrocia con l’elezione del Capo dello Stato: e, secondo Renzi, il successore di Napolitano deve scartare il «governo del cambiamento» proposto dal Pd e passare subito al «piano B» (maggioranza Pd-Pdl) o addirittura al «piano C», cioè lo scioglimento immediato delle Camere. Sono opinioni non solo legittime, ma anche dotate di una loro forza: sebbene tra gli elettori del centrosinistra qualunque ipotesi di alleanza politica con il Pdl abbia pochi sostenitori e tanti tenaci oppositori, in altri settori e soprattutto nelle classi dirigenti questa prospettiva è largamente auspicata. E la sintonia con le élite non è in sé disprezzabile, tanto più per un partito come il Pd che si considera il perno di ogni plausibile governabilità. Tuttavia, se la grande coalizione appare come la soluzione logicamente più idonea a superare lo stallo, nella realtà è del tutto insufficiente a rispondere alla domanda di cambiamento, al senso di sfiducia, alla vera e propria frattura politica prodotta dal voto del 24 febbraio.
Basterebbe dire che per 18 mesi abbiamo già avuto le larghe intese e l’esito elettorale non può essere imputato solo alle prestazioni, pur discutibili, del governo Monti. Basterebbe dire che il Pdl è tornato ad essere pienamente il partito personale di Berlusconi, avendo bloccato sul nascere la sua evoluzione democratica. Basterebbe dire che il Cavaliere ha fin qui subordinato il negoziato sul governo all’impossibile condizione di una garanzia giudiziaria per sé. Ma mettiamo pure da parte questi argomenti, che suonano propagandistici alle orecchie di cittadini che non sono di centrosinistra.
Il problema della politica è certamente, prioritariamente, quello di dare all’Italia un governo credibile in Europa, un governo che si preoccupi anzitutto delle sofferenze sociali, delle disuguaglianze crescenti, delle imprese che stanno morendo, del lavoro che drammaticamente si riduce, delle famiglie che non ce la fanno più. Ma guai a separare questo problema dalla consapevolezza che ci muoviamo su una faglia larga e profonda, che siamo nel mezzo di un terremoto. I cittadini che vivono il dramma sociale non hanno più fiducia in una politica che appare loro impotente, e anche per questo più esosa, più corrotta, autoreferenziale. Non ci sarà un recupero di fiducia, non ci sarà neppure una svolta nell’economia reale, se non verrà rimosso questo macigno.
Continuare sulla strada della grande coalizione – nella forma di un accordo politico o di un governo in apparenza più neutrale – sarebbe oggi la resa della politica, non meno di una corsa ad elezioni anticipate: tutto il contrario di quella comune assunzione di responsabilità che invece resta doverosa. Perpetuando lo schema di Monti, si rischia di rafforzare il dualismo tra la politica asserragliata nel Palazzo e le forze anti-sistema che spingono il disagio sociale fino alla soglia della rottura democratica. Peraltro, il solo compromesso possibile tra Pd e Pdl sarebbe quello di interpretare nel modo più passivo le direttive europee, senza il protagonismo necessario oggi all’Italia e all’Europa per cambiare davvero rotta.
Per rinascere, invece, la politica ha bisogno di recuperare le differenze. Di ritrovare la destra e la sinistra. Di mostrare in modo trasparente i diversi progetti. Di far capire che il cambiamento è possibile. Non un politica costretta in uno stato di necessità, ma una politica aperta, dove i cittadini possono misurare ogni giorno le opportunità e le distanze tra Pd, Pdl, Cinque stelle. Se gli italiani hanno scelto il tripolarismo, si lavori allora in uno schema nuovo. La proposta di Bersani non è faziosa, come sostiene il Pdl. E non è un invenzione: tutti i Paesi democratici – nessuno escluso – sono guidati oggi dal leader del partito che ha ottenuto più voti, ora nelle forme di un governo monocolore, ora di un governo di coalizione, ora di un governo di minoranza. Perché in Italia la competizione politica non deve essere ricostruita su binari europei? Perché invocare le elezioni anticipate, che potrebbero spingerci in una spirale distruttiva?
Un governo sotto la responsabilità del centrosinistra, in questa fase politica, potrebbe avere quel ruolo di promotore della ricostruzione nazionale che ieri Michele Salvati auspicava sul Corriere (salvo poi arroccarsi nel pregiudizio che tutti possono guidare un governo tranne Bersani). I numeri del Senato garantirebbero al Pdl e ai Cinque stelle parti da protagonisti e all’intero Parlamento una funzione di controllo che aveva smarrito. Sui problemi concreti del Paese – dalla revisione del Patto di stabilità interno, alle misure per il lavoro, le famiglie, le imprese, alla lotta alla corruzione e agli sprechi – si può competere e al tempo stesso decidere. Senza confusioni nel governo. E poi c’è un lavoro in comune, quello sì paritario, sulle riforme istituzionali, la riforma elettorale, la riforma dei partiti, l’equità dei rimborsi. Bersani si è detto pronto a far guidare il processo al Pdl, alla Lega, ai Cinque stelle: altro che esclusione. C’è un patto repubblicano da rinsaldare davanti alle nuove generazioni, fin qui escluse da un futuro dignitoso.
Il centrosinistra deve ritrovare le sue ragioni. Non per sé, ma perché sono condizioni vitali della democrazia. Restare fermi allo schema politico che ha preceduto queste elezioni vuol dire fare una scelta conservativa. Che Berlusconi e Grillo puntino alla conservazione dello stato di crisi è comprensibile: in Grecia, con la grande coalizione permanente, crescono solo la destra e le forze anti-sistema. Non la sinistra riformista. Che soffre il distacco dal suo popolo. Il confronto aperto da Renzi, invece, va portato avanti con serietà: perché un partito comprende la diversità e ne fa tema del suo radicamento sociale. L’importante è non dimenticare che l’unità, alla fine, resta condizione per esercitare un ruolo nelle istituzioni. E che in una comunità non può mancare il rispetto e il riconoscimento della dignità dell’altro. Non c’è battaglia generazionale che giustifichi la delegittimazione. Non è cortesia. È sostanza.

L’Unità 05.04.13