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"La mia città non può morire", di Massimo Cialente*

Gli aquilani e gli italiani celebreranno, domani, il quarto anniversario del terribile sisma che nel 2009 ha distrutto la città dell’Aquila ed i comuni del comprensorio. Un anniversario ancora più drammatico, più dei precedenti. Più drammatico perché, allo struggente dolore per quelle 309 vittime, tra cui tanti bambini e 55 studenti universita- ri, e per questi interminabili giorni di sospensione ai margi- ni di una città fantasma, si unisce ormai un profondo scora- mento; la perdita della speranza di veder ricostruita la città e, insieme, la vita di ciascuno di noi.

Quattro anni passati invano, per la scelta sbagliata ed antidemocratica del Governo Berlusconi di accentrare nelle mani di un fedele commissario, il presidente della giunta regionale Chiodi, la ricostruzione del cratere, escludendo qualsiasi ruolo agli enti locali.

Ciò si è tradotto, come da me più volte segnalato sin dal settembre 2010, in un totale fallimento caratterizzato da una pavida barriera di procedure burocratiche, indecisioni, incertezze che ci hanno fatto perdere almeno due anni di lavoro.

Basti pensare che il commissario Chiodi, quando ha lasciato l’incarico il 31 agosto 2012, ha restituito al Governo ben 447 milioni di euro perché incapace di trasferirli agli enti locali. Solo oggi, dopo mesi di embargo commissariale, grazie alla c.d. Legge Barca dell’agosto 2012, i comuni sono in condizioni di poter avviare la ricostruzione.

Ho giurato a me stesso di non guardare più indietro, al tempo perso; voglio guardare avanti, anche con un pizzico di entusiasmo ed orgoglio.

Proprio in questi giorni, il consiglio comunale con un atto di grande responsabilità ha votato il crono programma della ricostruzione; l’amministrazione ha assunto la responsabilità di indicare aree e tempi della ricostruzione, trovando il coraggio civile di dire a tanti cittadini che non possono ricostruire subito ma aspettare il 2015 od il 2016.

Lo abbiamo fatto perché è necessario avere un progetto credibile per la ricostruzione. Il nostro crono programma prevede la ricostruzione della città e delle sue frazioni per il 2018. Si può fare, lo abbiamo studiato nei minimi dettagli. Non è un progetto particolarmente ambizioso, tantomeno velleitario.

Ci crediamo e siamo pronti a farlo e abbiamo bisogno di crederci come si ha bisogno di ossigeno per respirare. La mia comunità sta perdendo la spe- ranza e la perdita della speran- za è un cancro che divora la collettività, la paralizza, la fa ritirare in se stessa.

Nell’ultimo anno sta accadendo ciò che più temevo e che non si era verificato all’indomani del sisma: gli aquilani soprattutto i giovani, stanno abbandonando la città, perché non c’è lavoro ma soprattutto perché non si può vivere senza un obiettivo certo in una città fantasma. Ecco perché il crono programma; ecco perché con tanta accuratezza lo scorso anno abbiamo conse- gnato e concordato con il Governo il piano di ricostruzione nel quale al centesimo abbiamo calcolato le somme delle quali abbiamo bisogno.

Nel mese di giugno, avremo consumato tutti i fondi che il Governo Berlusconi ha messo a disposizione dell’Aquila per la ricostruzione: 4 miliardi di euro. Ne mancano all’appello, ancora sette, per l’intero cratere sismico.

Non li chiediamo in un solo giorno. Per il comune dell’ Aquila, chiediamo 800mln per il 2013 ed un miliardo l’anno sino al 2018. Non e impossibile. Il Governo Monti ha trovato 6 miliardi di euro per il sisma dell’Emilia, inserendo una piccola tassa di scopo, finanziamento trovato mediante un meccanismo già utilizzato per 2 mld di euro per L’Aquila e che consiste in un muto che lo stato contrae con la cassa depositi e prestiti. 80mln l’anno per 20 anni, per ogni miliardo.

Mi rendo perfettamente conto della situazione economica del Paese ma questo mutuo si può contrarre. Occorre farlo perché altrimenti noi moriamo. La tragedia aquilana porta con sé un peccato originale: il fatto che il governo Berlusconi si rifiutò di inserire una tassa di scopo per ricostruire L’Aquila. Chiedo oggi alle italiane e agli italiani, al Parlamento ed al Governo di starci vicino, di aiutarci, di condividere con noi la sfida vitale che ci siamo assegnati: quella di ricostruire L’Aquila e l’intero territorio, restituen- doli all’Italia ed al mondo. Se nelle prossime settimane non arriveranno i finanziamenti la città sarà condannata a morire, attraverso un lungo declino, un’agonia che stiamo già conoscendo. Lunedì scorso, giorno di pasquetta, il centro storico è stato invaso da migliaia di turisti che attoniti si aggiravano nella città fantasma. Quando li ho visti mi si è stretto il cuore ed ho provato quasi un po’ di rancore con me stesso; il rancore di un sindaco che ancora non riesce a lenire queste piaghe. Resta fermo il sogno di poter ammirare, fra tre anni, una città ricostruita, ancora più bella di prima. Aiutateci, ricordateci, non ci abbandonate.

* sindaco de L’Aquila

L’Unità 05.04.13

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“Tra rabbia e rimpianti”, di JOLANDA BUFALINI

Non c’è la parola per dirlo, c’è la parola orfano, c’è la parola vedovo o vedova. Non c’è quella per dire la condizione di chi perde la figlia o il figlio. Forse per questo il 6 aprile è prima di tutto il ricordo delle ragazze e dei ragazzi, dei bambini vittime del sisma.

Degli aquilani e degli studenti di cui le istituzioni a cui erano affidati avrebbero dovuto prendersi cura. Renza Bucci avrebbe dovuto diventare nonna, il 6 aprile 2009, per il parto programmato della figlia. Ha perso sotto le macerie la figlia e la nipotina, la 309ma vittima, insieme al genero. Renza non ha mancato una udienza di quello che sulla stampa è stato chiamato il «processo alla scienza», eppure il suo nome non è fra quelli del ricorso contro la Commissione grandi rischi, perché per lei non c’è compensazione possibile, c’è invece il bisogno di sapere. Renza, prima che il tempo si fermasse alle 3 e 32 del 6 aprile, lavorava come amministrativa all’università. Nel crescendo delle scosse a L’Aquila, ai dipendenti dell’università era fatto divieto di avere paura e uscire dalle sedi. Obbligo di ferie per i «paurosi». Oggi gli uffici di palazzo Carli, il rettorato, sono un cumulo di macerie e si deve solo ringraziare che la scossa fatale fu di notte perché la strage, altrimenti, sarebbe stata ancora più terribile. Negli uffici e nelle aule. Marta Valente è rimasta 23 ore sotto le macerie che hanno sepolto per sempre Ivana Lannutti, l’amica con cui divideva l’appartamento. Ha spe-o per le cure 130.000 euro. Ma a L’Aquila era una fuorisede, non è tecnicamente una terremotata. Dice Sergio Bianchi, papà di un altro fuori sede, Nicola, morto in via D’Annunzio: «Non è che siamo stati dimenticati, lo Stato non ci ha proprio visti. Ma non vogliamo che sia cancellato il nome dei nostri figli». Uno dei libri più toccanti usciti dopo il sisma si chiama «Macerie dentro e fuori», è curato dal giornalista Umberto Braccili, scritto da genitori e fidanzate o fidanzati dei ragazzi morti nelle case che avevano preso in affitto per studiare. Palazzi in cemento armato, quell’1% di edifici in cemento armato che non avrebbero dovuto crollare e che, invece, sono crollati. Questo libro auto-prodotto, «lo abbiamo fatto per sentirci meno soli», è approdato al Consiglio nazionale dei geologi (sul cui sito può essere acquistato). Insieme ai geologi, i genitori dei ragazzi morti hanno istituito un premio per una tesi di laurea in scienze geofisiche sul rischio sismico. Poca cosa, 3000 euro, anche se si spera di trovare altri fondi, «siamo famiglie operaie – spiega Sergio Bianchi – abbiamo risorse minime». Però è «un modo per andare nelle università, dove abbiamo trovato molto interesse negli studenti, a fare informazione e prevenzione», spiega Gian Vito Graziano, presidente dei geologi.

Nel dopo terremoto si alternano sentimenti contrastanti: smarrimento, voglia di reagire, rabbia, depressione, progetto collettivo, ricostruzione individuale dell’esistenza. Up and down. Siamo nel down. Dal punto di vista del discorso pubblico il 2012 ha significato due cose: il passaggio, fortemente voluto ma non privo di problemi, dalla gestione emergenziale a quella ordinaria, che significa ritorno della democrazia e delle procedure di legge negli appalti. L’altra cosa è lo svolgimento dei processi, incardinati quando era procuratore Alfredo Rossini, morto di tumore il 28 agosto 2012. Il processo per la Casa dello studente, quello per il Convitto nazionale, quello della ommissione Grandi rischi. Processi che hanno portato a condanne in primo grado ma che, soprattutto, hanno portato a delle verità, quelle verità che si possono ricostruire per via giudiziale, come ha spesso sostenuto il Pm Fabio Picuti, per «non dimenticare», dice Sergio Bianchi, «gli errori del 2009». Un grande lavoro per una piccola procura in cui spicca la serie- tà dei giudici monocratici (per quan- to complessi siano questi processi, si tratta di reati colposi per i quali non è previsto il collegio) Giuseppe Grieco, Marco Billi, che hanno dovuto giudicare in solitudine. Sulla testa del silenzioso Marco Billi, che ha parlato solo attraverso le motivazioni della sentenza, si è scatenata la tempesta delle critiche per «il processo alla scienza». Ma la linea difensiva impo- stata da Guido Bertolaso, prima ancora che si facesse il processo, con una raccolta di firme fra scienziati per affermare che «i terremoti non si possono prevedere», se ha fatto breccia nel fatalismo del senso comune, non ha tenuto conto delle leggi dello Stato. Leggi che affidano alla Commissione grandi rischi «competenze specifiche di previsione e di prevenzione, oltre che di raccolta e divulgazione di tutte le informazioni che potessero essere utili ai fini della protezione della popolazione». Attorno a questi delicati compiti è cresciuto un grande apparato, un sistema di informazione istituzionale (disciplinato dalla legge) sulla comunicazione del rischio, che ha accresciuto il prestigio e, conseguentemente, la fiducia di chi è in pericolo. Le vittime del sisma de L’Aquila potevano essere in numero minore – è la conclusione – se quella riunione conclusasi con messaggi rassicuranti non ci fosse stata. Fra le riflessioni sul 6 aprile il libro di Antonello Ciccozzo, antropologo, uscito per Derive e approdi: «A L’Aquila – scrive – si è rivelata una catena di comando che, per calarsi dalla politica alla comunicazione, ha avuto bisogno di accreditarsi attraverso la scienza».

L’Unità 05.04.13