Nell’era della comunicazione in tempo reale, della democrazia digitale, del chi non sa o si ferma è perduto, i dati sull’analfabetismo di ritorno emersi dall’indagine All -Adult Litercyand LifeSkills – promossa dall’Ocse, aiutano a capire le radici della crisi politica italiana più di molti editoriali delle ultime settimane.
La ricerca conferma ciò che già da tempo si sa: più di due terzi della popolazione non è in grado di leggere e capire a fondo ciò che legge, solo il 20% degli italiani comprende il senso di un testo complicato dalla presenza di subordinate, cifre o grafici. Oltre le frasi elementari, l’italiano, per gli italiani, è una lingua in gran parte straniera, e i numeri, oltre le operazioni semplici, sono per molti un continente sconosciuto. Se la regressione delle competenze è un fenomeno che attraversa tutti i Paesi in quanti ricordano i residui alogenici o le irregolarità delle desinenze del latino usciti dai licei? in Italia la qualità e la quantità di questo arretramento ha avuto conseguenze catastrofiche, come da tempo afferma e argomenta De Mauro.
La dealfabetizzazione caratteristica dei Paesi più ricchi si somma da noi alla passata mancata scolarità, propria di un Paese segnato da un processo di modernizzazione senza sviluppo, come scriveva Franco De Felice. Questo nuovo analfabetismo ha caratteristiche inedite: chi oggi legge senza capire, non sempre ne è consapevole, mentre chi ieri firmava segnando era invece ben conscio della propria condizione, lottava per conoscere o per consentire ai propri figli di farlo. I nuovi analfabeti sono lontani dai cliché per età, appartenenza sociale e abitudine. Molti di essi hanno redditi elevati, accedono alla rete e usano i social network. Non sono dunque solo gli anziani privati delle opportunità, ma anche i giovani che stentano a trovarle, a sviluppare nel lavoro le conoscenze acquisite a scuola e all’università. Non stupisce che questo massiccio «analfabetismo funzionale» non venga vissuto, collettivamente ed individualmente, come problema. Gli inciampi dati da ciò che non si sa vengono superati delegando alle risorse tecnologiche. La rete aiuta ad orientarsi, offre appigli immediati e soprattutto semplifica. Il tempo necessario alla fatica della conoscenza fatica del corpo e della mente è respinto: superfluo rispetto alle necessità del qui e ora. Stupisce invece come quest’ordine di considerazioni da porre accanto alla verifica sul calo delle immatricolazioni, sui giovani con laurea ma senza lavoro, sul numero di libri e giornali letti in Italia resti sostanzialmente fuori dal ragionamento politico. Il nuovo analfabetismo non è un fenomeno circoscritto. Pesa nella formazione della vita associata, nella costruzione del senso comune, della cultura e della lingua. Condiziona le forme della comunicazione e della politica. Riduce la lingua all’osso e combatte l’argomentazione. Non capire cosa si legge significa essere privi degli strumenti per orientarsi in una società complessa, del controllo sulle decisioni pubbliche e sulle deliberazioni; in altre parole ancora, vuol dire affidarsi. Leggere senza capire vuol dire spesso comunicare senza ragionare.
Sta qui una parte cruciale della nostra crisi democratica, e da qui si dovrebbe partire, oggi, per distinguere tra le risposte doverose alle istanze di cambiamento e le illusioni regressive di un «nuovo» senza volto. La politica non può rassegnarsi allo spirito e alla lingua del tempo: ciò che oggi i cittadini richiedono, se si ha l’attenzione di considerare non solo le grida e i blog più seguiti, è un atto di responsabilità e di scelta. Combattere l’analfabetismo funzionale non vuol dire solo un robusto e finanziato programma per la scuola e l’università, vuol dire combattere il dileggio verso le forme strutturate e reali della vita associata, le istituzioni, l’informazione. La casta non c’entra: è in gioco il rifiuto per il dialogo, la mediazione tra diversi, il senso del limite, l’accordo senza il quale non c’è, prima ancora di ogni equilibrio politico, assetto civile che tenga.
l’Unità 02.04.13