Sono ospite in una casa del 1747 tutta in legno, con tante scale, i letti altissimi da terra, i mobili panciuti, i ritratti di illustri accademici appesi alle pareti foderate di carta colorata, tappeti, specchi, ninnoli, tende ricamate. Sembra di abitare in un museo antropologico.
Il lavoro dei campi è ormai meccanizzato e la tecnologia si rinnova in continuazione assorbendo sempre piu energia e cacciando via sempre più manodopera. Salvo gli Amish che ogni tanto si incontrano per le strade con i loro carretti, i loro pantaloni alla zuava, le loro gonne lunghe, le cuffie bianche in testa, i loro cavalli da tiro. I prodotti che portano in città sono molto apprezzati perché gli Amish non adoperano pesticidi e ogni vegetale ha un sapore antico. Sono anche amati dai negozianti perché, non usando carte di credito né assegni, hanno l’abitudine di pagare tutto in contanti. Non sono poveri. Guadagnano bene coi loro prodotti di artigianato e spesso si comprano terreni e case. Presentandosi al venditore con borsellini gonfi di dollari.
Passeggio su strade vuote improvvisamente illuminate da scintillanti bar d’angolo dalle ampie vetrate illuminate e mi sembra di fare capolino in un quadro di Hopper. C’è qualcosa di misterioso e di sospeso in questi paesaggi urbani che stanno a metà fra l’estrema meccanizzazione e un cocciuto attaccamento alla memoria della conquista. Da qui la passione diffusa per le armi. A volte questi americani della provincia sembrano ritenersi ancora fermi in quel tempo eroico in cui ogni giorno si conquistavano lembi di territorio selvaggio, alle prese con bestie feroci, indiani dalle frecce avvelenate, torrenti in piena, montagne dalle rocce aguzze e inospitali.
Ogni tanto la strada viene attraversata da un cervo pensoso e sognante. Sono bellissimi a guardarsi. Ma ce ne sono troppi, dicono, e c’è chi vuole sterminarli. Anche perché li accusano di avere introdotto una speciale minuscola zecca che ha la capacità di arrampicarsi su per le gambe dei passanti portando una grave malattia chiamata lime disease.
L’insofferenza per l’industria del cibo che produce troppi sprechi e causa malattia e obesità sta sviluppando una estesa catena di imprese ecologiche che si diffondono rapidamente per tutti gli Stati Uniti. Ma fin a che punto si può invertire la rotta? Quasi schizofrenico appare il rapporto fra i media che rovesciano ogni giorno nelle case degli americani montagne di immagini di guerre sanguinose, di sparatorie, di omicidi, di incidenti, di stupri, di violenze di ogni genere e la calma sospesa di questi campus dove le case, anche le più ricche, non sono mai circondate da fili spinati, dove le finestre si aprono su giardini fioriti, senza grate, senza persiane.
Le televisioni, anche quelle più serie, come la Cnn, raccontano in continuazione storie di sesso e di sangue. Una delle più seguite, in questi giorni, riguarda una ragazza, Jodi Arias, che ha ucciso a coltellate il suo fidanzato e dice di non ricordare assolutamente niente di quello che è successo, pur confessando il delitto. Ogni sera giornalisti diversi si alternano per spiegare, giudicare, analizzare la storia. La redazione intanto mette in mostra i corpi nudi dei due fidanzati che si fotografavano a vicenda. Vengono interrogati psichiatri, medici, opinionisti per spiegare come mai una ragazza bella, serena, appagata, abbia sentito il bisogno di accoltellare il suo amato, finendolo poi con un colpo di pistola alla nuca, come se volesse assicurarsi che fosse veramente morto. Jodi Arias, dai lunghi capelli bruni che circondano una faccia atona e dolce, sostiene che lui la costringeva a fare sesso in modi perversi. «Ma tu ci stavi!», le grida l’avvocato accusatore. E lei risponde che sì, lo amava, ma era esasperata da quelle richieste, sempre più estreme e avvilenti. La ragazza piange e una giornalista si accanisce puntandole addosso il dito: «Ma piangevi forse mentre gli cacciavi il coltello nel petto? Piangevi quando gli sparavi alla testa?». La ragazza singhiozza. La giornalista la chiama pubblicamente «mostro».
Strano che invece, per il caso Pistorius, che ha occupato le serate di molte televisioni per oltre due settimane, fino alla sua liberazione su cauzione, non ci sia stato lo stesso accanimento. I giornalisti hanno dimostrato molto più rispetto e simpatia per il giovane atleta sudafricano che ha ucciso la fidanzata e poi si è giustificato dicendo che l’aveva presa per un ladro. Le ha sparato al di là di una porta, senza sapere se veramente fosse un ladro, senza chiedersi da dove fosse entrato visto che la casa era vigilata da agenti in armi e cani feroci. Inoltre, quando ha sparato il primo colpo, non ha sentito la ragazza che urlava al di là della porta? Ma gli eroi sono eroi, e il giovanotto che già un’altra volta è stato fermato con armi in pugno e accusato di avere minacciato un rivale, è stato lasciato libero di tornarsene a casa.
Dovendo fare un breve confronto fra le nostre televisioni e quelle americane, direi che le nostre sono molto più offensive per quanto riguarda la reificazione del corpo femminile. Gli americani da questo punto di vista sono piu sobri. Ma per quanto riguarda la violenza, certamente ci battono. Sparatorie, sangue, ferite, rantoli, non si finisce mai di rappresentare l’odio e la vendetta compiuta attraverso le armi. Mi chiedo se questo quotidiano racconto di morte non sia, oltre a un modo per esorcizzarla, anche un incentivo sotterraneo a farsi giustizia da soli, a vedere in ogni vicino un insidioso vampiro.
Gli italiani in queste parti del grande Paese sono tantissimi. Ci sono intere comunità di abruzzesi a Boston e spesso gli anziani non parlano che il dialetto dei loro villaggi. Raro il caso di persone come Elvira Di Fabio che, nonostante le difficoltà dell’adattamento, ha imposto a tutta la famiglia l’italiano, l’ha insegnato per anni all’università di Harvard e e oggi lo pretende anche dai nipotini. In generale la fatica per integrarsi è stata tale che, chi ce la faceva, costringeva i figli a parlare solo l’inglese. Ma i figli dei figli cominciano a mostrare curiosità per le radici comuni e sono felici di imparare l’italiano. Da qui la nascita di nuove scuole private e pubbliche dove si insegna la nostra lingua. Nonostante i tagli e le nuove ristrettezze, persone come Graziella Parati, come Tania Convertini, come Catherine Sama, come Anne Boylan, come Giovanna Lerner, come Maria Cappello e come Gian Maria Annovi che insegna a Denver e sembra il fratello dei suoi studenti tanto è giovane e americanizzato, portano avanti lo studio dell’italiano con tempi e ritmi nuovi, consapevoli di tutte le contraddizioni delle attuali convivenze linguistiche. Questi non sono figli di emigranti con la valigia di cartone, ma emigranti essi stessi, con la laurea in tasca, fuggiti dall’Italia per mancanza di lavoro e di prospettive.
Ma eccoci alla giornata delle donne. Che viene festeggiata all’università di Rhode Island con incontri e discussioni in mezzo a un mare di studenti, sotto lo sguardo bonario della vivacissima decana, Winnie Brownell. Un panel organizzato dall’efficiente e appassionato Michelangelo La luna, raduna donne di diversi continenti: Cina, Italia, Corea, Romania, Messico, Stati Uniti. Senza peli sulla lingua le giovani donne raccontano i guai che subiscono le donne in varie parti del mondo. Come quei milioni di aborti di feti femminili, ragiona Ping Xu, che hanno creato uno scompenso grave fra il mondo degli uomini e quello delle donne, scompenso che viene controbilanciato da un largo uso di prostituzione e materiale pornografico. O indagano, come fa Jody Lisberger, sui muri invisibili che separano ancora oggi negli Stati Uniti le donne dal mondo delle grandi decisioni. O riferiscono (Jeanne Salomon), delle difficoltà che abitano una società basata soprattutto su una competizione feroce. O imputano molte delle pene femminili (Tommasina Gabriele) ai contraddittori rapporti fra madri e figlie. O studiano (Anna Cafaro) le spine del relativismo culturale. O rivelano (Donna Hughes) gli orrori della «Modern slavery», ovvero il commercio internazionale di corpi femminili, che pare raggiunga la terribile cifra di 27 milioni in tutto il mondo. E di queste una buona metà è costituita da minorenni. O narrano, come fa Mary Cappello, con uno stile fantasioso e lirico, dei linguaggi dimenticati che hanno attraversato il mondo delle donne.
Il mio viaggio finisce col ritorno a Boston da una Denver irta di meravigliose rocce rosse in mezzo all’altipiano del Colorado. A Cambridge, nella grande sala dell’American Academy of Arts and Sciences si festeggia la memoria di Rita Levi Montalcini. Ci sono le autorità: il console Pastorelli, i grandi professori di Harvard, ci sono le studentesche incuriosite, ci sono le bandiere, quella italiana e quella americana che si intrecciano addosso alla parete. Fuori si segnalano cinque gradi sotto lo zero. La neve si sta ghiacciando. Dentro, il riscaldamento è anche eccessivo. È bello poter parlare della nostra grande scienziata in mezzo a tanti studenti. Per una volta non ci saranno domande sulla presunta nipote di Mubarak, sulla vendita dei senatori, sul basso livello della nostra classe politica.
Gli ex studenti di Rita, il professor Emilio Bizzi, del Mit e il professor Elio Raviola della Harvard Medical School, nonché un suo lontano nipote americano, George Sacerdote, la ricordano come una «donna severa ma gentile, pronta a qualsiasi sacrificio pur di portare avanti i suoi esperimenti». Una donna che andava in giro con i topolini in tasca, divisa fra la tenerezza e il rigore degli studi. Una donna che è stata perseguitata dal fascismo, ma non si è chiusa nel suo guscio. Ha partecipato come medico alla liberazione del Paese, assieme agli alleati. Ha studiato con generosità e accanimento il cervello umano. Ha attraversato un intero secolo, senza mai perdere di lucidità e di impegno.
Forse non ci rendiamo conto che la nostra credibilità all’estero non consiste solo nel livello di indebitamento pubblico, ma soprattutto nella capacità di proporre all’attenzione dei giovani persone come Rita Levi Montalcini, che rivelano una Italia seria, creativa, instancabile e dalla schiena dritta.
dal corriere.it