La Pasqua è per i cristiani la festa della liberazione e della speranza. Ci auguriamo che questi valori contagino la comunità civile, perché l’Italia è avvitata in una grave crisi economica e politica e ha bisogno di guardare oltre il presente, di tornare a progettare un futuro migliore. Ieri il Capo dello Stato ha deciso di congelare le procedure di formazione del governo: i veti impediscono di superare il blocco. E, per quanto grande sia la sua autorevolezza, i poteri limitati dal semestre bianco rendono anch’egli più debole.
Di fronte allo stallo Giorgio Napolitano aveva pensato di dimettersi con qualche settimana d’anticipo. Ma il timore che una simile decisione fosse interpretata all’estero, o dai mercati, come un ulteriore segno di destabilizzazione delle istituzioni ha consigliato la dichiarazione di ieri. Il Capo dello Stato resta in carica fino alla conclusione del settennato, e intanto si affrettano le pratiche per la convocazione delle Camere in seduta comune. L’istituzione dei due comitati è irrituale nel mezzo di una crisi, comunque il lavoro è istruttorio. Il prolungamento del governo Monti (da notare che, ad esultare più di tutti, è stato Grillo, a riprova di una singolare miscela tra eversione e doroteismo) non è tale da restituire i pieni poteri ad un esecutivo ormai sfinito, tuttavia può essere sorretto da qualche «speciale» forma di sostegno parlamentare. E, benché sia difficile diradare tutti i dubbi sul quadro d’insieme, va sottolineata la cura del presidente a non limitare le prerogative del suo successore, la libertà delle forze politiche e la loro assunzione di responsabilità.
A seguire la crisi giorno dopo giorno, si rischia però di restare impigliati nei particolari. Ora ci si dovrà fermare per una ventina di giorni, a meno di clamorose sorprese. E soprattutto si dovrà cambiare l’agenda: la priorità diventa l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Le tattiche cambieranno perché la maggioranza presidenziale può anche essere diversa da quella politica. Ma, al fondo, restano una crisi e un passaggio di portata storica che riguarda il destino stesso dell’Italia e dell’Europa. E, accanto ad essi, una domanda di cambiamento politico, che, se delusa, rischia di travolgere la stessa democrazia costituzionale.
Per quanto il percorso sia diventato più tortuoso, insomma, non è venuta meno l’esigenza di imprimere una svolta nel governo, di uscire dalla seconda Repubblica, di cambiare la rotta delle politiche economiche, di riconciliare i cittadini con la sobrietà, la legalità, la trasparenza delle istituzioni. Il cambiamento è la sola opzione realistica. E le battute d’arresto che Berlusconi e Grillo hanno imposto in queste settimane alla proposta di Bersani non devono indurre il centrosinistra ad un compromesso di basso profilo. Perché tale sarebbe una riedizione del governo Monti, magari con un altro nome al posto di Monti. Siamo convinti che il Capo dello Stato non abbia voluto proporla ai partiti in queste ore, non solo per i veti reciproci, ma anche perché un grande settennato – che ha dato prestigio all’Italia – non poteva concludersi con la formazione di un governo debole, forse ancora più debole di quest’ultima versione del governo Monti.
Berlusconi ha detto no a Bersani perché Bersani non si è piegato ad un ricatto inaccettabile: lo scambio tra il via libera ad un governo di centrosinistra e una presidenza della Repubblica ipotecata dal Cavaliere. Il Pdl ha buon diritto a concorrere alla scelta di un presidente di garanzia per tutti. Ma, se il ricatto allude al salvacondotto di Berlusconi, accettarlo pregiudicherebbe la libertà di ogni governo e la dignità delle istituzioni. Grillo ha detto no a Bersani (anche ad una non-sfiducia) per controllare i suoi nel recinto dell’opposizione totale. I Cinque stelle hanno buon diritto di difendere la loro autonomia e nessuno ha in mente un’alleanza Pd-M5S: tuttavia anche a loro è chiesto di assumersi responsabilità conseguenti ai voti ottenuti. Mentre in questa partita hanno preferito giocare di sponda con Berlusconi, regalandogli un maggiore potere di interdizione.
Il risultato di tutto ciò è lo stallo di oggi. Ma non c’è un esito plausibile della crisi che non comporti forti novità nelle forme e nei contenuti. La proposta del Pd resterà comunque il punto di ripartenza della crisi, una volta eletto il nuovo presidente della Repubblica. Il cambio dell’ordine del giorno aiuterà ad eliminare il ricatto. Tuttavia, non sarà un compromesso qualunque a mettere l’Italia al riparo dai suoi rischi. Non si potrà tornare a parlare di larghe intese o di governo tecnici, come se non avessero già prodotto il quadro di sfiducia nel quale siamo precipitati. La proposta del centrosinistra resta il punto di partenza perché il cambiamento è possibile solo se una formazione politica gioca se stessa, e i suoi uomini migliori, attorno a un progetto innovativo di governo. Non è un’idea arrogante: governi cosiddetti di «minoranza» operano in molti Paesi europei. Il loro vantaggio è che consentono alle forze antagoniste di misurarsi con trasparenza e di proporre ai cittadini e in Parlamento tesi alternative. La politica smetterebbe di essere descritta come un corpo separato, assediato da forze anti-sistema. Nella proposta Pd c’è anche il secondo binario, quello delle riforme. Speriamo che il comitato istituito da Napolitano avvii il lavoro. In Parlamento le responsabilità di Pdl e Cinque Stelle possono diventare preponderanti. Se il problema del governo futuro fosse il nome di Bersani, siamo convinti che il problema non ci sarà. Ma se qualcuno ha in mente una mediazione senza cambiamenti, allora non ha capito cosa sta accadendo in Italia. I compromessi sono buoni quando consentono soluzioni all’altezza delle sfide.
L’Unità 31.0.13