Mentre il mondo cerca strade nuove e le culture meno occidentali si affermano, noi ci balocchiamo difensivamente intorno ai temi del valore degli h-index, facciamo guerre di posizione sul numero e la qualità delle pubblicazioni in riviste più o meno reputate, pensiamo di risolvere i problemi della valutazione approntando qualche chilo di questionari la cui compilazione demenziale demanda il compito a quelli stessi che dovrebbero essere valutati. Ci sono istituzioni che leggono in ritardo i mutamenti nelle società tentando forme di adattamento incrementale, e altre che pensano di affrontarli irrigidendo burocraticamente gli stimoli all’innovazione, inquadrandoli strumentalmente, lavorando solo sulle componenti interne tradizionali in ottica di aggiornamento. Fino a estenuarne la valenza salvifica in assenza di coraggio e passione. L’università sembra dispiegare nelle ricorrenti riforme una volontà minimizzatrice che esalta l’apparente razionalizzazione degli strumenti gestionali, finalizzati alla conservazione del potere accademico interno nel momento in cui tutto si flessibilizza, crescono le autonomie, vanno in crisi le barricate che facevano della politica l’ultimo rifugio della conservazione.
Mentre il mondo cerca strade nuove e le culture meno occidentali si affermano, noi ci balocchiamo difensivamente intorno ai temi del valore degli h-index, facciamo guerre di posizione sul numero e la qualità delle pubblicazioni in riviste più o meno reputate, pensiamo di risolvere i problemi della valutazione approntando qualche chilo di questionari la cui compilazione demenziale demanda il compito a quelli stessi che dovrebbero essere valutati. Ci sfugge che l’università dovrebbe avere un ordine delle priorità diversamente articolato. L’istituzione ha un core business: gli studenti e il loro destino, in un mondo in cui gli sconvolgimenti epocali imprimono accelerazioni impensate mettendo a rischio modalità collaudate di insegnamento, vecchie certezze organizzative e la tradizionale linea di confine tra ciò che sta dentro il sistema di trasmissione scientifica e quel che avviene all’esterno. Ciò dovrebbe portare a riflettere che la semplice ripulitura degli strumenti tradizionali, l’adeguamento meccanico, l’affermazione reiterata di interessi corporativi, seppur sottoposti a maquillage, non aiutano ad affrontare la natura della missione che bisognerebbe affrontare.
Che è quella di aiutare gli studenti non solo a imparare le materie in piani di studio mal articolati a tutela di professori a cui bisogna garantire un corso, ma a sperimentare le condizioni nuove che si troveranno ad affrontare. I saperi al lavoro richiedono la valutazione di altri impegni oltre a quelli dell’aula, di una diversa cura degli interessi complessi in gioco. Non si può pretendere di capire come operare nel durante senza includere nella visione il prima e il dopo, come fosse possibile costruire un ponte non avendo attenzione ai piloni. La nostra cultura, rispetto alla ricchezza della domanda di competenza che esprime un mercato del lavoro in evoluzione, sembra asfittica, ripiegata a tutelare assetti disciplinari rigidi, inquadrata in regole burocratiche che nessuno riesce più a comprendere. Anche perché se non si apre la scatola legittimando il confronto, liberando le forze in campo, riportando la valutazione nelle mani di chi è destinatario del servizio (studenti, famiglie) e di quanti (imprese, organismi di rappresentanza, associazioni professionali) dovranno beneficiare del prodotto formato, il rischio di obsolescenza di quanto si va preparando è prevedibile.
C’è un derivato di quest’impostazione arretrata: la cultura autoriferita del sistema universitario, con i suoi modelli di segmentazione dei saperi e la tutela delle reti di trasmissione e cooptazione dei ruoli di potere accademici, oltre a essere divergente rispetto a come va il mondo inculca negli allievi una dimensione individualizzata dei percorsi di carriera, giocata sulla mediazione della materia e dell’esame, avulsa da percorsi relazionali e da stimoli che dovrebbero alimentare il tessuto connettivo degli anni di studio. Le nostre università stentano a definirsi un mondo con quello che il termine include: vita, interessi da cui trarre saperi complementari, esercizio di responsabilità operative, terreno di sviluppo di idee e costruzione di progetti. Ciò che aiuterebbe a familiarizzarsi con i problemi a cui gli studenti vanno incontro. È illusorio immaginare che la comprensione del mondo passi solo attraverso la trasmissione di conoscenze. Serve un supplemento crescente di esperienze multiple, anticipate, che evidenzino la diversa disponibilità dell’istituzione e dei suoi interpreti, non più sacerdoti di materie arcane o di tecnologie salvifiche ma disponibili a interpretare se stessi.
Il nuovo mondo ha bisogno di una figura antica, il maestro. Che si prende cura, consente di sbagliare, alimenta la curiosità e la voglia di provare. Qualcuno che ha il gusto e la passione di creare una discendenza. Quanto tutto questo abbia da spartire con la cultura universitaria è un bell’esercizio di discernimento. Ma, forse, è anche per questo che oggi, se non ripensiamo l’istituzione in funzione delle sue vere finalità e delle nuove sfide, avendo il coraggio di dire quello che è riforma fasulla e bisogni veri, continueremo ad alimentare una cultura perdente. Con la responsabilità di rafforzare un ossimoro: quello di flessibilizzare le teste utilizzando una struttura di trasmissione inflessibile.
da Affari e Finanze 28.03.13