Infierire sarebbe così facile e così meritato che verrebbe voglia di cercare argomenti per difendere il governo e i due ministri competenti (?!), giustificare, in qualche modo, quella che il capo di stato maggiore ha definito, qualche giorno fa, «una farsa» e che, ieri, in Parlamento, ha superato persino i caratteri di un genere drammatico che, pure, ha grandi tradizioni e nobili interpreti. Ricorrere a quelle parole che cominciano tutte con la «s», come sconcerto, stupore, sgomento, sdegno e finiscono tutte con una condanna senza appello.
Oppure si potrebbe solleticare la complicità del lettore con l’irrisione e il sarcasmo, sfogando così l’amarezza e la vergogna per una figuraccia internazionale quale, nella storia della Repubblica, si fa fatica a ricordarne una somigliante. Una tentazione che promette un effetto brillante, ma che sarebbe imperdonabile accogliere, perché non si può davvero sorridere sulle spalle di due militari italiani in attesa di un processo che potrebbe condannarli, se non alla morte, a una lunga pena detentiva.
Meglio, allora, avvertire il rischio e sollecitare l’allarme davanti all’imprevedibile incrocio tra una crisi di governo, già molto complicata sullo sfondo di possibili nuove elezioni e uno «tsunami» devastante sul governo Monti , con riflessi negativi persino sul Quirinale. Istituzioni che, nel frattempo, dovrebbero reggere l’immagine dell’Italia sul piano internazionale, per evitare conseguenze gravi sui conti della nostra finanza e della nostra economia. Una situazione che, oggi, dovrebbe imporre a tutti i partiti, per un minimo di responsabilità nazionale, atteggiamenti che non cerchino di sfruttare il dibattito sul caso dei marò e delle dimissioni del ministro Terzi nell’occasione per una sfacciata e contingente propaganda politica.
L’occasione, invece, potrebbe essere anche utilizzata per cercare di rispondere alla domanda che, in queste ore, un po’ tutti si fanno. Perché quel governo Monti e quei «tecnici», chiamati in soccorso di una politica fallimentare, celebrati e celebratisi come i salvatori dell’Italia, rispettati in sede internazionale e stimati dalla stampa estera, stanno per concludere la loro esperienza, proprio su quella scena mondiale teatro di tante soddisfazioni, in un modo così disastroso? In un modo tale da cancellare, magari ingiustamente, un ricordo, nella memoria degli italiani, che poteva essere diverso?
C’è solo un motivo di consolazione, forse, in una vicenda dove è davvero difficile trovarne. Quella di un chiarimento, severo ma illuminante, sulla questione dei tecnici in politica. Una ipotesi auspicata fin dai lontani tempi del ministro repubblicano Visentini e che, periodicamente, si affaccia quando la politica si manifesta inadeguata a risolvere i nostri problemi. La delusione per questo epilogo del governo Monti potrebbe indurre alla errata conclusione che la competenza sia inutile o un ostacolo alla buona politica. Invece, proprio la lezione che si può trarre dal lavoro compiuto dal governo Monti, in questo anno e mezzo di attività, dimostra che i guai cominciano quando i tecnici esulano dalle loro competenze e sono sedotti dalla prospettiva di cambiare mestiere e di trasformarsi in politici. Tentazione che, sulla scia dell’esempio più importante, quello del presidente Monti, ha contagiato, ad un certo momento, anche il suo ministro degli Esteri.
Davanti a questa mutazione genetica così allettante, si palesano, allora, i dieci «peccati capitali» dei tecnici che vogliono cambiare mestiere: 1) La sopravvalutazione della competenza. Poiché è l’unico motivo per cui vengono chiamati, essi pensano che le loro teorie siano infallibili e, se producono errori, la colpa non è di teorie sbagliate, ma di realtà che sbagliano a non adeguarsi. 2) La pelle sottile. Abituati alle riverenze accademiche, non sopportano le durezze dello scontro politico. 3) L’ingenuità. Sottovalutano le capacità di interdizione delle burocrazie ministeriali, così potenti da far fallire qualsiasi progetto d’innovazione. 4) L’isolamento professionale. Se i consigliori decidono, chi consiglia i consigliori? 5) Un linguaggio che tradisce. Non c’è niente di peggio che scambiare un’aula di università, piena di studenti intimoriti, per un’assemblea parlamentare pronta ad azzannare chiunque. 6) Un’emozione che tradisce. Controllare i sentimenti non è facile, per chi non ha imparato la cinquantennale lezione di un Andreotti. 7) I tempi troppo veloci. La politica non consente le lentezze di chi è abituato a meditare troppo prima di rispondere (anche di fronte alle telecamere). 8) A proposito di tempi: sanno di essere ministri «a tempo», ma vorrebbero estendere all’infinito quella scadenza. 9) Suscitano troppe speranze, perché possano arginare le inevitabili delusioni. 10) Ultimo e più grave peccato: la vanità, per chi non è abituato a padroneggiarla, come gli attori o i politici, si trasforma sempre in un crudele boomerang.
In un mondo in cui si pensa di poter fare a meno dei medici, cercando le ricette su Internet, degli avvocati, sfogliando il codice, degli idraulici, ricorrendo agli esperti casalinghi del «fai da te» e, magari, pure dei giornalisti, utilizzando i più comodi tramiti comunicativi della «rete», sarebbe ora che anche i cosiddetti tecnici rispettassero le loro competenze e le loro professionalità e non invadessero quelle degli altri.
La Stampa 27.03.13