La missione che oggi il Capo dello Stato affiderà a Bersani è ai limiti del temerario. Costruire la Terza Repubblica su una piccola maggioranza «da combattimento» e due grandi minoranze «di blocco». Il leader del Pd deve tentare un «governo strano», che per nascere ha bisogno di non essere sfiduciato dal Pdl e per durare ha bisogno di non essere impallinato dall’M5S.
Un’equazione quasi impossibile, per l’aritmetica e per la politica. Ma l’unica in campo, per evitare il ritorno alle urne.
Al termine di un giro di consultazioni che non sono bastate a diradare i «banchi di nebbia» paventati fin dall’inizio dal presidente della Repubblica, è logico e giusto che Napolitano dia l’incarico a Bersani, sia pure con riserva. Ed è logico e giusto che lui ci voglia provare: è pur sempre il «vincitoresconfitto » nel voto del 24 febbraio. In questa veste (già di per sé molto scomoda) la strada che il segretario dei democratici deve percorrere si fa sempre più stretta e pericolosa. Si muove tra due paletti, resi espliciti dall’esito degli incontri al Quirinale.
Il primo paletto è interno: il Pd è indisponibile a ogni ipotesi di coalizione o forma di alleanza, palese od occulta, con il Pdl: dunque ribadisce il suo no pregiudiziale alle larghe intese riproposte da Berlusconi, «pillole avvelenate » che il Cavaliere prova ad offrire al centrosinistra, con l’unico obiettivo di rientrare in un gioco politico dal quale al momento è escluso. Il secondo paletto è esterno: Beppe Grillo è indisponibile a ogni ipotesi di fiducia o forma di sostegno, palese od occulto, a un governo diverso da quello guidato dal suo stesso non-partito: dunque il Movimento 5Stelle ribadisce la sua vocazione «totalitaria» e si rifiuta di condividere con qualunque altra forza politica le insegne del cambiamento, di cui si ritiene unico proprietario o intestatario.
Con questi vincoli, quello che da oggi è il nuovo «presidente incaricato» prova a mettere in piedi un governo non auto-sufficiente, che non può contare su una maggioranza pre-costituita, ma che deve tentare di costituirla con il metodo delle geometrie variabili. Queste geometrie vanno ricercate su due piani diversi.
C’è un piano politico, che si articola sulla necessità di far fronte all’emergenza della crisi (allentando la morsa del rigore fiscale, ridando liquidità al sistema delle imprese, sbloccando gli investimenti degli enti locali) e alla questione morale (varando una legge severa contro la corruzione e tagliando i costi della «casta»). Su questi temi la convergenza in Parlamento non è legata alle pregiudiziali tattiche, ma è dettata dalle posizioni «ideologiche»: una seria legge sul finanziamento ai partiti potrà forse contare sulla stampella di Grillo, mentre una vera legge sul conflitto di interessi escluderà automaticamente Berlusconi dal perimetro della maggioranza.
C’è poi un piano istituzionale, che si articola sulla necessità di riscrivere la legge elettorale, sul dimezzamento del numero dei parlamentari e sulla creazione di un Senato delle autonomie. Riforme largamente condivise, almeno
sulla carta, che a parte la prima devono passare attraverso l’iter della revisione costituzionale fissata dall’articolo 138, e che dunque devono essere approvate con la maggioranza dei due terzi. E qui Bersani deve necessariamente puntare a una convergenza trasversale e più ampia, «per il bene del Paese». Ma per poter attuare queste riforme di sistema, avvertite come urgenti da tutti, nel Palazzo e nel Paese, è necessario che il governo guidato dal leader del Pd possa vedere la luce, e dunque ottenga una fiducia, o quanto meno una «non sfiducia», in Parlamento.
Il ragionamento del leader è chiaro: chi si chiama fuori, a questo punto, si assume la responsabilità di impedire che l’Italia possa uscire dalla palude nella quale sta sprofondando. Chi affonda il suo «governo del cambiamento » si assume la responsabilità di portare il Paese esattamente dove nessuno (tranne Grillo e Casaleggio) sembra disposto ad andare: e cioè verso nuove elezioni. Con lo stesso orribile Porcellum che produce solo ingovernabilità, e senza le misure che possono tamponare la recessione, arginare la povertà e fermare la tragica emorragia di posti di lavoro.
Il «piano A» del leader del centrosinistra è lodevole. Ma oggettivamente ha un solo punto di forza: è l’unica soluzione in campo, prima di risciogliere nuovamente le Camere e tornare ancora una volta alle urne. Il gioco dei veti incrociati e delle reciproche incompatibilità sembra aver già bruciato tutti i possibili piani B, C o D. Governi tecnici o istituzionali, governi del presidente o dell’esploratore: ormai tutte le alternative sembrano precluse. Dalla logica ferrea dei numeri, dall’irriducibile irredentismo dei grillini o dall’irresponsabile tatticismo del Cavaliere.
Non osiamo nemmeno immaginare quali contropartite potrebbe pretendere Berlusconi (a partire proprio dall’elezione del successore di Napolitano sul Colle) per non intralciare il cammino di Bersani. Già basta questo, per capire quanto sia rischioso e accidentato il sentiero che dovrebbe portare il Pd a Palazzo Chigi. Stavolta in gioco, oltre al governo del Paese, c’è il destino della sinistra italiana.
La repubblica 22.03.13