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"Se nessuno ferma la pericolosa rabbia anti-Ue", di Paolo Soldini

Cipro è Cipro. Un’isola confinata laggiù, piena di miliardari russi e con le banche imbottite di titoli greci. Un caso speciale, in cui il volume dei depositi negli istituti di credito è due volte e mezza il ioè: 47,9 miliardi su 18 miliardi, il 263,3%. Queste cifre, ci garantiscono, spiegano perché non si potesse far altro che quel che s’è fatto – o meglio: s’è tentato di fare – sui conti dei risparmiatori. Va bene, ma guardiamo altre cifre. Nelle banche del Lussemburgo sono depositati 227,37 miliardi, ovvero il 516,8% del Pil del Granducato (44 miliardi). In ben 10 dei 17 paesi dell’Eurogruppo il rapporto tra i depositi e il Pil nazionale è superiore al 100%. Persino nella solida Germania vince l’economia di carta, al 118,9% dell’intera produzione di merci e servizi.
È inutile rovinarsi l’umore al pensiero di che cosa potrebbe succedere se questa bolla cosmica un giorno dovesse scoppiare. È bene, però, cercare di capire quanto la situazione che c’è sotto incida oggi sulla percezione che dell’Europa hanno i cittadini in tutti i Paesi. Mettiamo un po’ di fatti in fila. In Italia quasi la metà degli elettori hanno votato tre settimane fa per due partiti che un tempo sarebbero stati definiti «euroscettici» ma il cui atteggiamento verso le istituzioni europee, oggi, va ben oltre i dubbi e, viaggiando nella confusione e nella demagogia, sconfina nell’ostilità aperta. In Germania tra una ventina di giorni nascerà un partito che vuole tornare al marco o almeno, in subordine, cacciare dall’euro i Paesi del sud e creare un bell’euro «nordico» sostenuto da casse pubbliche floride che non debbano più dissanguarsi per sostenere le cicale della Dolce Vita meridionale. Le elezioni italiane e l’annuncio della nascita di «Alternative Deutschland» sono avvenuti quando di Cipro si par- lava ancora solo sui giornali economi- ci, è vero, così come la ribellione che avrebbe portato poi al cambio di go- verno in Slovenia e le violente convulsioni nella Grecia torchiata dalla trojka. Ma i problemi e le scelte politiche che avrebbero portato al drasti- co aut aut a Nicosia si manifestavano da mesi e mesi in tutti i Paesi a rischio. La rottura del tabù sui conti privati ha reso solo più vivido e incombente un timore che si percepiva da tempo in Spagna, in Portogallo, in Irlanda e anche qui da noi: da Bruxelles e Francoforte arrivano solo guai.
L’Europa, oggi, non è popolare. Ma detto così è troppo facile e non spiega nulla. Che cosa suscita l’ostilità, le paure, il rancore di tanta parte dell’opinione pubblica in tutti i Paesi contro Bruxelles? L’Unione europea in quanto tale o le politiche che vengono perseguite in suo nome? Rifugiamoci pure nel pensiero consolante che ciò che viene rifiutato, in modo sempre più evidente e con sfumature sempre più forti di populismo, non è l’idea in sé, non sono neppure le istituzioni in quanto tali ma le loro azioni o, spesso, la loro inazione. Però l’impressione è che la soglia oltre la quale il rifiuto passa dalle politiche alle istituzioni si vada facendo pericolosamente vicina. È in atto una rinazionalizzazione strisciante non solo delle politiche comunitarie, e di questo sono pesantemente colpevoli i governi, ma anche del comune sentire. La scelta dell’austerity viene attribuita alla Germania e non all’attuale governo di centro-destra di Berlino, dove magari fra qualche mese non ci sarà più Angela Merkel ma forze politiche favorevoli alla condivisione del debito. Così come in Germania, in Finlandia negli altri Paesi del nord non si considerano le difficoltà di bilancio dei paesi del sud come frutto di politiche sbagliate, ma come espressione di un’eterna propensione allo sperpero. In un sistema che è integrato per la sua stessa natura e in cui il comporta- mento di ciascuna parte influisce su tutti gli altri si riscoprono i presunti valori della «sovranità» (anche mone- taria) e si grida contro le «ingerenze» da Paese a Paese.
La nazionalizzazione dei contrasti impedisce di discernere tra la giustezza o meno delle scelte politiche, genera una sorta di pensiero unico inevitabilmente dettato dai più forti e punitivo verso i più deboli, che risolve tutto nella disciplina di bilancio e non si cura minimamente degli investimenti, del lavoro e delle tutele sociali. Della vita delle persone, cioè. Per paradosso, poi, il pensiero unico appiattisce anche le diversità di posizione e di interessi che pure è normale che esistano tra i Paesi.
Il rischio, ora, è che il cerchio si chiuda e il transfert diventi permanente: che in larghi strati di cittadini che votano il rifiuto delle politiche europee diventi rifiuto dell’Europa punto e basta. Allora dovremmo temere che alla fine anche da noi si faccia «come a Cipro». Perché se la logica è solo quella che i conti tornino perché i conti tornino ogni cosa è legittima.

L’Unità 21.03.13