La vicenda che sta coinvolgendo Cipro e che ha gettato nel panico le Borse di tutto il continente è solamente l’ennesimo tassello di una gestione della crisi da parte delle istituzioni europee che sarebbe riduttivo definire disastrosa. Dopo Grecia, Portogallo e Irlanda, è la piccola isola del Mediterraneo la nuova stazione di questa Via Crucis europea che appare senza fine. La crisi cipriota presenta molte analogie con quelle già viste a Madrid e Dublino: un indebitamento pubblico ben al di sotto della media europea (il 48,6% nel 2008), ma un settore bancario ipertrofico che – attirando capitali dall’estero grazie all’applicazione di tassazioni di favore – era arrivato a valere oltre cinque volte il Pil nazionale. Trovare un impiego produttivo per una mole così spropositata di denaro era diventata una missione praticamente impossibile, e gli istituti di credito ciprioti avevano quindi dirottato larga parte di questa ricchezza verso l’acquisti di titoli e obbligazioni di paesi esteri – in particolare verso la Grecia – rimanendo però pesantemente invischiati nel tracollo di Atene.
Da lì è incominciato il dramma di Nicosia che ha avuto il suo epilogo nella decisione presa l’altro giorno di avviare piano di salvataggio per il paese. Il prelievo forzoso sui depositi bancari era sul tavolo dell’Ue da oltre un mese, ma pochi credevano che l’Eurogruppo lo avrebbe davvero messo in pratica. Esso sembrava più che altro una minaccia per convincere il governo cipriota a privatizzare le organizzazioni semi-governative e alzare la bassissima tassazione sugli utili societari. Invece alla fine l’Europa ha deciso di dare il via a questa ennesima follia, con la convinzione che Cipro, per le sue ridotte dimensioni e la sua sostanziale irrilevanza nel quadro economico europeo, non avrebbe causato nessun fenomeno di contagio nella zona euro. A giudicare dalle prime reazioni di ieri c’è da ipotizzare che i mercati non abbiano però le stesse certezze. Dopotutto se passa l’idea che è possibile mettere le mani nei conti correnti dei privati cittadini appare verosimile credere che i correntisti delle banche dei Paesi più in difficoltà decidano di cautelarsi e ritirare i propri risparmi, mettendoli in salvo dai futuribili raid dell’Eurogruppo. Se ciò accadesse, gli istituti di credito soffrirebbero di una immediata crisi di liquidità che ne minerebbe le già fragilissime fondamenta. A questo si aggiungerebbe una massiccia fuga dei capitali dai paesi a rischio a quelli più sicuri, con effetti nefasti sui rendimenti dei titoli pubblici e privati. Il miracoloso meccanismo messo in piedi con grande abilità da Mario Draghi negli ultimi mesi, che ha garantito un periodo di relativa quiete ai mercati finanziari, rischia di saltare facendoci ripiombare nel panico di un anno e mezzo fa. Finora la Bce è riuscita a convincere i mercati che all’interno dell’unione monetaria tutto sia sotto controllo promettendo un intervento a sostegno dell’euro «costi quel che costi». Se però la situazione dovesse precipitare e i mercati volessero andare a verificare le effettive intenzioni dell’istituto di emissione, si aprirebbe un nuovo braccio di ferro all’interno del direttorio dell’Eurotower.
È assai probabile, infatti, che i nuovi interventi a sostegno dei titoli pubblici dei vari Paesi non siano gratis, ma vengano sottoposti a condizionalità, ovvero al rispetto di nuovi impegni sul fronte dei conti pubblici, della flessibilizzazione dei mercati del lavoro e del taglio dello stato sociale. È chiaro che ritrovarsi in una situazione di questo tipo senza un governo nel pieno delle sue funzioni rischia di indebolire non poco il nostro Paese. Non tanto nei confronti dei mercati, che ormai hanno più volte dimostrato di non credere più ai fantasmagorici piani di austerità partoriti a Bruxelles e di preferire – al contrario – progetti capaci di restituire rapidamente slancio e vigore alle economie europee. Il vero problema sarà piuttosto quello di avere la forza politica di presentarsi al tavolo delle trattative con un ventaglio di alternative capaci di contrattare per il nostro paese una soluzione equa e non penalizzante per l’interesse nazionale e il per il benessere dei cittadini.
È francamente difficile credere che questo compito possa essere assolto da un governo dimissionario, uscito sfiduciato dalle urne e con un presidente del Consiglio ormai impegnato quasi a tempo pieno per garantirsi un futuro politico, finora con scarse fortune. «Fare presto» questa volta è un imperativo che vale molto più di qualche punto di spread.
L’Unità 19.03.13