Sono giornate difficili ma importanti, destinate a contare molto nel futuro. L’avvento di un Papa straniero col nome di Francesco, il «poverello di Assisi» è stato sorprendente ma io credo che l’entusiasmo con cui è stato accolto è il segno che qualcosa sta cambiando nella vicenda del mondo. La necessità di un grande cambiamento era già nell’animo della gente. Una svolta nel senso della giustizia era attesa. Dunque decisioni nuove e straordinarie devono essere prese.
Ma il dramma dell’Italia sta proprio in ciò: il suo sistema politico non sembra in grado di prenderle.
Io parto sempre dal Paese. E continuo a pensare che la nostra amata Italia così com’è non regge alle sfide dei nuovi tempi. La crisi economica è giunta ormai al rischio di una necrosi del tessuto produttivo (stanno chiudendo troppe imprese) di un impoverimento per grandi masse e anche di rotture serie della compagine nazionali: i ricchi e i poveri, il legame tra le generazioni, il rapporto non solo economico ma di solidarietà e di cittadinanza tra l’Italia padana e il Mezzogiorno. Credo che così si spiega l’accumulo di divisioni, di sfiducia, perfino di disprezzo di tutti contro tutti.
Eppure in questo quadro italiano c’è qualcosa che allude a un’alba. Sono le nuove soggettività. È il bisogno dirompente di cambiamento e di moralità che abbiamo sentito anche nei discorsi dei nuovi presidenti delle Camere. Io aggiungo il fatto che la crisi non riguarda solo noi e può quindi creare uno spazio nuovo che le forze del cambiamento se vogliono e se alzano il loro sguardo possono occupare. Sono sempre più convinto che la politica dovrebbe parlare qualche volta anche di questo: del fatto che siamo arrivati a un «tornante» della storia, a un tramonto dell’ordine economico e culturale (il cosiddetto «pensiero unico» liberista) finora dominante.
Anche l’elezione del nuovo Papa ci dice che si è aperta a livello mondiale una enorme questione sociale. Ed è questa che sta provocando fenomeni inusitati di ribellione anche morale. Gli uomini, ma soprattutto i giovani, sentono sia pure confusamente, che il «sistema» chiude i loro orizzonti e spegne le speranze delle loro vite, per cui si fa strada l’idea che il mondo non può essere governato da una ristretta oligarchia finanziaria, la quale è più potente di qualsiasi Stato. Il denaro prodotto col denaro, questa enorme «rendita» moderna che si mangia l’economia reale non va bene. Il risultato è un mondo coperto di debiti che tocca ai poveri pagare riducendo le loro pensioni e finendo in mezzo alla strada. È davvero una insopportabile vergogna.
Di qui l’enorme bisogno di cambiamento. Però io aggiungo cambiamento vero, non solo «facce nuove» nè quel tipo di «rottamazione» che è fuga dalla storia e dalla coscienza critica di essa. Non bisogna avere paura di andare controcorrente e dire la verità. La verità è che il cambiamento non è ostacolato dall’esistenza dei partiti politici ma dal fatto che la gran parte delle classi dirigenti italiane è così cinica che pur di fare gli affari suoi ha scambiato Berlusconi per uno statista, (e continua). Ed è così sciocca da non capire che senza una idea nuova dell’Italia, dalle sue debolezze come del suo grande passato non si può fare nessuna svolta verso il futuro.
E io credo che in qualche misura questo discorso vale anche per la sinistra. Siamo in forte ritardo, rispetto alle cose, perdiamo consenso tra i giovani e tra gli operai. Questa è la cosa amara che ci hanno detto le elezioni. Ma è anche per queste ragioni che la decisione del Conclave mi fa esultare. Hanno eletto Papa un vescovo argentino che si è dato il nome di Francesco d’Assisi, il Santo dei poveri. Questo si che è una grande notizia. Un centinaio di anziani cardinali per mezzo di vetuste liturgie ci hanno dato una lezione. Hanno dato una risposta alla crisi della Chiesa, non negando gli aspetti più contingenti di essa (la pedofilia, i complotti della Curia, ecc.) ma andando, con un colpo d’ala, alla sostanza del rinnovamento: la necessità di riscoprire il «cristiano». Ciò che è la grandezza del cattolicesimo. Il Dio che si fa uomo, che scende in terra e guida il cammino spirituale degli uomini ma stando nella storia. Quindi immergersi nella vita di oggi, nelle ingiustizie e nelle sofferenze della gente povera. Ripartire dalla fratellanza. Camminare insieme.
È chiaro. Noi siamo una cosa completamente diversa ma io vedo una analogia. Noi parliamo troppo di politica ai politici con la «lingua di legno» della politica. Non parliamo abbastanza alla gente delle cose e dei loro sentimenti, di ciò che sta letteralmente sconvolgendo le loro vite. Ci rendiamo conto delle ingiustizie del mondo di oggi? Tanto più insopportabili perché questo non è più il mondo dei servi e dell’ottuso contadiname analfabeta di una volta. E il mondo di giovani acculturati e informati ma privati del futuro.
Vorrei però chiarire bene il senso di queste mie parole. Io non sto fuggendo dalla dura realtà in nome di astratti ideali. Io parto da una analisi (forse sbagliata) ma concreta, «materiale», «strutturale» secondo la quale siamo in presenza non di una crisi ciclica ma della crisi del «meccanismo di accumulazione». Questa mi sembra la novità. Il sistema non solo è ingiusto ma non funziona. L’economia a dominanza finanziaria si è separata troppo dalla società. Il predominio della rendita finanziaria e la gravità degli squilibri alimentati dalle logiche speculative di breve periodo stanno distruggendo quel «valore aggiunto» che in definitiva è prodotto dal lavoro e dalla creatività umana. In ciò io vedo non solo la necessità ma la possibilità di una svolta che porti alla creazione di un nuovo rapporto tra l’economia e la società.
Un nuovo modello di crescita, il quale nasca non dalla buona volontà della Signora Merkel ma dalla capacità dell’iniziativa politica e delle strutture organizzate dalla democrazia di far leva su bisogni, capacità, contesti, patrimoni storici e culturali. Insomma, camminare di più (anche noi) insieme e accanto alla società italiana.
Per riformarla.
L’Unità 19.03.13