E le fabbriche? Mentre discutiamo di presidenza del Consiglio e della Repubblica, di Beppe Grillo e di marò, rischiamo di dimenticarcele. Un gravissimo errore. Il manifatturiero è la spina dorsale del sistema economico. Non solo perché in Italia ci sono almeno sei milioni di operai, rispetto a 30 milioni di persone che lavorano e a 14 milioni che hanno un rapporto a tempo indeterminato (dati Istat). Ma soprattutto perché senza manifatturiero non può esserci terziario, non ha senso parlare di servizi, di ricerca e sviluppo, di crescita economica, di uscita dalla crisi. Senza fabbriche, insomma, non si va da nessuna parte. Non è un caso che la Germania sia da tempo la locomotiva economica d’Europa: lì il manifatturiero pesa per il 26% del Pil, e si tratta per lo più di produzioni ad elevato valore aggiunto, con un altissimo contenuto di ricerca e sviluppo, e in larga parte destinate all’esportazione. Eppure, l’economia reale è stata la grande assente dal dibattito mediatico sulle elezioni. Di fabbriche – purtroppo – si parla solo quando chiudono, quando gli operai protestano o quando succedono grandi disastri, come a Taranto. Invece, bisognerebbe chiedersi dove vanno le fabbriche in Italia, dove le si vuole far andare, e perché. Bisognerebbe agire per tenere in vita quelle sane e per farne crescere di nuove. Con grande attenzione all’ambiente e a tutte le regole europee. Nonostante tutto l’Italia resta ancora un forte Paese industriale. Oggi il manifatturiero vale il 16,17% del Pil, una percentuale di poco superiore a quella della Gran Bretagna (16%), ma assai più elevata che in Francia (12%). Ma lo stato di salute delle nostre fabbriche è preoccupante. Perché dal 2007 a oggi la quota del manifatturiero sul totale del Pil è scesa dal 20% all’attuale 16,7%, e non solo per colpa della grande crisi della Fiat (che pure ha dato una bella botta). La lettura degli ultimi dati Istat sembra un bollettino di guerra. Rispetto allo stesso mese del 2011, nel dicembre 2012 il fatturato del manifatturiero è calato del 6,4%; quello della riparazione e installazione di macchine utensili del 18,7%; la metallurgia e affini del 13,2%; la fabbricazione di coke e affini del 6,7%; la fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche del 10,1%. Dove dobbiamo arrivare perché qualcuno inizi a occuparsene seriamente? Certo, c’è chi dice che il futuro dell’Italia non è lì, che dobbiamo guadagnare competitività su alta moda, design, lusso e alimentare, cioé sui settori dove in tutto il mondo viene riconosciuta la superiorità dei prodotti made in Italy. Ma anche questi settori possono, anzi devono, generare sviluppo industriale, come riconosce anche l’economista Francesco Daveri nel suo ultimo libro Crescere si può, pubblicato dal Mulino. Sulla centralità del manifatturiero, va registrata una singolare convergenza di Cgil e Confindustria. Il sindacato dei lavoratori e quello dei padroni si combattono sul terreno della contrattazione e delle regole di gioco, ma sono gli unici a difendere la centralità delle fabbriche. «Bisogna dire alle piccole e piccolissime imprese dove vogliamo portarle e quali risorse ci saranno. Sia chiaro comunque che in assenza di un indirizzo di questo genere rischiamo il declino vero e proprio del nostro settore manifatturiero », ha dichiarato per esempio Susanna Camusso a margine della XX tavola rotonda del Business International. «Sulle macerie, poi, sarebbe difficile costruire», ha avvertito la leader Cgil. Mentre il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha detto nei giorni scorsi: «Quello che più mi preoccupa è che abbiamo perso oltre 7 punti di Pil dal 2007 a oggi e se ci focalizziamo sull’attività manifatturiera il calo è addirittura del 25%. Se non rimettiamo al centro del Paese e delle forze politiche e sociali l’industria manifatturiera non ci potrà essere crescita, non ci potrà essere riduzione del deficit e non potremo riacquisire la fiducia degli investitori esteri». Non a caso, l’argomento è ignorato da coloro che non vorrebbero né sindacati dei lavoratori, né sindacati dei padroni, nè regole, né reti politiche- sociali che tengano insieme il Paese. Nel far west non c’è posto per piani di crescita delle fabbriche. Vince il più forte, e si salvi chi può. Certo, Cgil e Confindustria si occupano delle regole del gioco, non della creazione e del mantenimento in vita di nuovi campi da gioco. La politica industriale – sembrerà un gioco di parole – spetta anzitutto alla politica. Perché comporta fare delle scelte che privilegiano alcuni e possono sembrare penalizzanti per altri. Politica industriale, come ha spiegato Luciano Gallino in tanti ottimi libri (in particolare Lascomparsa dell’Italia industriale, pubblicato da Einaudi nel 2003, andrebbe riletto oggi con attenzione), significa privilegiare alcuni settori da cavalcare e incentivare rispetto ad altri da lasciare al loro destino. Come fece la Gran Bretagna degli anni Ottanta, quando decise di non investire più su un’industria automobilistica nazionale (attirando però i car-makers stranieri, tanto che per molti anni il Regno Unito è stato il primo Paese europeo per auto prodotte) e di puntare sull’aerospaziale e su altri comparti. Politica industriale vuol dire usare gli strumenti consentiti dalle regole Ue sulla concorrenza per dare un indirizzo produttivo al Paese. Vuol dire avere una visione del futuro e perseguirla, prendendosi anche dei rischi. Solo così sarà possibile salvare le fabbriche. E, anche, salvare il tessuto economico-sociale di questo Paese, che nel secondo semestre del 2013 vivrà la recessione peggiore della sua storia.
L’Unità 18.03.13