Per Confesercenti è una catastrofe. Sono migliaia le imprese del commercio e della ristorazione che stanno chiudendo in questi primi mesi del 2013 e, parallelamente, crolla il tasso di nascita di nuove attività. Analoga situazione per le imprese di costruzioni. Nel 2012 hanno chiuso 62mila imprese edili (su un totale di 895mila del comparto) e sono stati persi 81mila posti di lavoro (-4,6%). Non è andata meglio agli artigiani dell’edilizia, solitamente più reattivi. Hanno chiuso l’attività 55mila piccoli costruttori, con un saldo negativo del 2% rispetto all’anno precedente. Per Confartigianato, il trend della produzione è drammatico: -16,2% nel corso del 2012, tre volte peggio della media europea. Ad aggravare la situazione è stata anche la stretta creditizia. Secondo l’Osservatorio di Confcommercio, quasi il 40% delle imprese si è visto rifiutare la richiesta di finanziamento oppure gli è stata drasticamente ridotta la quota finanziata. Tra giugno 2011 e lo stesso mese del 2012, secondo Unioncamere, si è verificata una flessione nell’erogazione bancaria pari al 2,5%. Nella grande maggioranza dei casi (70%), il finanziamento era necessario a coprire la mancanza di liquidità, mentre solo una minima parte, il 20%, era destinato a nuovi investimenti.
STRETTA DEL CREDITO
La stretta al credito ha colpito anche le imprese esportatrici, benché l’export rimanga l’unica voce col segno positivo. Sul fronte del lavoro il quadro è ancora più drammatico. Nel 2012 gli occupati sono scesi di circa 300mila unità e il tasso di disoccupazione, in un anno, è cresciuto di oltre due punti. Nel 2013 gli occupati potrebbero scendere di altre 600mila unità e la disoccupazione salire ulteriormente di tre punti. Uno studio della Cgil segnala come, solo tra gennaio e febbraio, le ore di cassa integrazione autorizzate siano aumentate del 22,7% rispetto al 2012. All’interno di questo quadro il debito pubblico continua a crescere. Secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia ha raggiunto quota 2.023 miliardi di euro. Il Pil, invece, è diminuito. Il quarto trimestre 2012 ha registrato un andamento peggiore delle previsioni (-2,8%). I primi mesi del 2013 si prefigurano altrettanto drammatici e il tanto annunciato miglioramento del quadro economico è per ora rinviato a data da destinarsi, considerata anche la congiuntura negativa che continua a caratterizzare altri Paesi.
In un contesto di per sé difficile, l’Italia fatica di più e la situazione è persino peggiore del 2008.
Non tanto negli indicatori economici, quanto nella capacità di tenuta del sistema. Quando è scoppiata la crisi, l’Italia aveva ancora risorse cui poter attingere. Oggi queste risorse sono esaurite e il Paese è in ginocchio, stremato, avvitato su se stesso. La linea del rigore, forgiata nei laboratori di Bruxelles, si è rivelata un disastro e il prezzo è drammatico: crescita della disoccupazione, riduzione del valore dei redditi da lavoro e delle pensioni, diminuzione del potere d’acquisto, aumento della povertà. Un prezzo che pesa interamente sulle famiglie, sulle fasce di reddito più basse, sui pensionati, sulla classe media e medio-bassa, sui piccoli imprenditori. I prossimi tre mesi saranno decisivi e l’Italia è a un bivio: può iniziare un percorso per uscire dal tunnel o può sprofondare definitivamente. Impossibile non avere consapevolezza della gravità della situazione e cercare di nascondersi dietro concetti da manuale. Abbiamo bisogno della politica come mai è accaduto negli ultimi anni, eppure il groviglio istituzionale in cui ci siamo incastrati esprime impotenza. All’Italia servirebbe un governo forte in grado di imprimere una svolta per far ripartire l’economia, ma il voto non ha restituito alcuna soluzione in questo senso. Abbiamo poco tempo e lo stallo istituzionale in cui ci troviamo rischia di diventare il detonatore di una deflagrazione economica e sociale dalle conseguenze devastanti. E non solo nel nostro Paese. L’Italia rappresenta un pilastro fondamentale dell’impalcatura europea e l’acutizzarsi della crisi può scuotere l’intero architrave. Non c’è da stupirsi, quindi, se abbiamo gli occhi degli altri Paesi puntati addosso, che osservano con attenzione e preoccupazione quanto sta accadendo. Anche perché, in tipico stile italiano, passiamo con disinvoltura da un eccesso a un altro, mantenendo il primato delle contraddizioni.
Il nostro Parlamento era quello più anziano, adesso è quello più giovane. E sarebbe una bella e importante novità se non fosse che alcuni tra i neodeputati e i neosenatori mancano delle basi minime per assolvere il compito cui sono chiamati. Il fatto che un parlamentare non sappia da quanti membri sono composte le Camere non è una questione di costume su cui sorridere. È il sintomo di un decadimento più profondo di quanto siamo disposti ad ammettere. E questa situazione non è altro che l’ennesimo punto di ricaduta negativo della nostra legge elettorale. Una legge che non permette ai cittadini di scegliere un proprio rappresentante in base alle sue idee e competenze politiche, ma spinge a votare per un’«atmosfera», a dare segnali talmente rarefatti da essere destinati a rimanere per lo più inascoltati.
LA SVOLTA
Se le elezioni dovevano rappresentare una svolta, indubbiamente lo sono state. Ma in peggio. E la rivoluzione uscita dalle urne rischia di far sprofondare il Paese, perché non offre alcuna percorribilità. In questo senso, la metafora dell’apriscatole usata da Beppe Grillo per sintetizzare il suo obiettivo, è adeguata. Presuppone che non ci sia qualcosa da costruire, ma solo da scardinare. Frasi che non sarebbero tollerate in nessun altro Paese democratico ma che in Italia sono state sempre derubricate nella categoria del «linguaggio colorito». Il pantano in cui sta affondando l’Italia, d’altronde, è visibile anche nel travaglio con cui sono stati eletti i Presidenti di Camera e Senato. Pietro Grasso e Laura Boldrini sono due personalità di altissimo livello che, in un Paese normale, sarebbero stati accolti come il segnale di una stagione politica finalmente lontana da quelle alchimie di palazzo tanto contestate quanto praticate. Queste nomine, invece, sono passate come uno «strappo» al tentativo di dare un governo al Paese. Cosa succederà adesso? Difficile dirlo. Il Paese è allo stremo e purtroppo sembra che manchi la necessaria consapevolezza rispetto al contesto drammatico che stiamo vivendo. Serve rilanciare l’economia con robuste iniezioni di domanda pubblica, occorre ridurre il cuneo fiscale che preme sul lavoro, ridare potere ai salari, avviare un piano straordinario per pagare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese, finanziare gli ammortizzatori sociali, recuperare risorse per l’occupazione dei giovani, ridurre le disuguaglianze e ampliare le fasce di tutela. Occorre, cioè, un governo in grado di dare un indirizzo al Paese.
SOLUZIONE IN PARLAMENTO
I risultati delle urne non hanno restituito alcuna maggioranza in grado, autonomamente, di dare forza a un esecutivo in grado di fare tutto questo. Oggi tocca a Bersani presentarsi alle Camere con un suo programma e chiedere la fiducia. Il Parlamento deve essere il luogo dove trovare una soluzione allo stallo politico e dove ciascuno si deve assumere le responsabilità che gli competono e che riguardano il futuro del Paese. Perché, piaccia o no, la democrazia ha le sue regole. Se nessun governo dovesse nascere con caratteristiche chiare in quanto a programma, forza e durata, meglio tornare immediatamente alle urne, senza tentennamenti e presupposti aleatori che lascino campo a soluzioni provvisorie. Il Paese non ha più tempo. Le prossime mosse saranno fondamentali. La sfida che abbiamo davanti richiede almeno questa consapevolezza.
*Presidente Tecnè
L’Unità 18.03.13