Un giudice antimafia, forse l’ultimo vero erede di Giovanni Falcone, e una donna da anni in prima fila – come portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati – nel soccorso e l’aiuto a migranti e profughi politici. Piero Grasso e Laura Boldrini, cioè: entrambi arrivati per la prima volta in Parlamento tre settimane fa, sono da ieri i nuovi presidenti di Camera e Senato. Pier Luigi Bersani, il leader che ha scommesso su di loro, ha commentato la doppia elezione con uno di quei tweet tanto di moda: «Se si vuole, cambiare si può».
L’ascesa di Grasso e Boldrini porta con sé due buone notizie ed una sensazione meno positiva. Le notizie, intanto. La prima: qualche tessera del complicato puzzle alla fine del quale dovrebbe esser rivelato l’assetto politico-istituzionale della nuova legislatura, comincia ad andare al suo posto. La seconda: le due tessere sistemate ieri costituiscono una (piacevole) sorpresa per novità, storia personale e perfino profilo etico, il che non guasta mai (a maggior ragione oggi, con la politica messa in un angolo dai frequenti scandali).
La sensazione meno positiva riguarda invece il prossimo – e ancor più importante – obiettivo da centrare: la formazione del nuovo governo.
Alla doppia elezione di ieri, infatti, ci si è arrivati alla fine di un incerto dialogo tra le parti che ha ora lasciato sul terreno rancori, delusioni e propositi di rivalsa. Lo stato dei rapporti tra Bersani e Monti, per esempio, è senz’altro assai peggiore di quanto lo fosse prima; il partito di Silvio Berlusconi denuncia l’«occupazione» delle presidenze da parte del Pd e spinge per elezioni il prima possibile; e il Movimento Cinque Stelle, infine, è letteralmente imploso – tra pianti, urla e recriminazioni – di fronte alla prima occasione in cui è stato chiamato a compiere una scelta: il che lascia presagire che tenterà di tenersi il più distante possibile da circostanze simili… Un quadro che non pare certo propedeutico – sia sul piano del clima che dei rapporti politici – alla formazione di una qualsiasi maggioranza di governo.
Anche perché, a differenza di quel che qualcuno aveva sperato, Pier Luigi Bersani non pare aver alcuna intenzione di cambiare la linea annunciata subito dopo la mezza vittoria (o la mezza sconfitta) del 24 e 25 febbraio. L’ha sintetizzata in uno slogan che sta diventando concretamente comprensibile ogni giorno di più: «Mai più responsabilità senza cambiamento». Che vuol dire: con larghe intese e governi tecnici abbiamo già dato, e con Berlusconi non si torna, a meno che della partita non sia anche Beppe Grillo. Cambiamento, dunque: come per i nomi ed i profili dei nuovi presidenti di Camera e Senato. Cambiamento: che ora, a proposito di governo, significa mai un esecutivo senza il Movimento Cinque Stelle, la dirompente novità politica frutto – appunto – della voglia di cambiamento degli italiani.
La maggioranza del Partito democratico è certa che Grillo non voterà mai la fiducia ad un governo-Bersani e si va ormai convincendo che il segretario non defletterà da questa linea: e che l’unico «piano b» che sarebbe disposto a prendere in considerazione sono elezioni anticipate a giugno. Il leader del Pd, infatti, è convinto che il no a soluzioni che replichino l’esperienza Monti, per esempio, può permettere di recuperare consensi tra i tanti elettori democratici incantati da Grillo. Senza contare il fatto che il precipitare verso elezioni da far svolgere in tempi brevissimi, renderebbe impossibili nuove primarie e toglierebbe dal campo Matteo Renzi.
Questo è un obiettivo gradito alla larga maggioranza del Pd, ma è soprattutto con i cosiddetti «giovani turchi» di Fassina, Orlando e Orfini che il segretario sta cercando di costruire un asse che abbia come obiettivo (dopo l’abbandono del Parlamento da parte di personalità come D’Alema, Veltroni, Turco e altri) una sorta di fase due della «rottamazione», da gestire da Largo del Nazareno – sede del Pd – piuttosto che da Palazzo Vecchio. Ma se questo è davvero il disegno, è chiaro che le acque potrebbero cominciare ad agitarsi notevolmente anche all’interno del Pd: con i prevedibili effetti destabilizzanti sul piano della formazione del governo…
Il lavoro che è di fronte a Napolitano ed alle forze politiche, dunque, resta difficile. Il primo passo, però, è compiuto: e due presidenze su quattro, sono assegnate. Resta da trovare una soluzione per le tessere più difficili dell’intero puzzle: capo del governo e Quirinale. Non sarà facile, e il tempo stringe. Non solo stringe per chi vuole tornare alle urne già a giugno: stringe soprattutto per le risposte urgenti da dare a un Paese squassato da una crisi economica e sociale che pare aggravarsi ogni giorno di più.
La Stampa 17.03.13