Questo vertice europeo verrà da noi ricordato, più che per le sue conclusioni, per il testamento politico lasciato da Mario Monti ai leader europei.
Il loro sostegno non lo ha certo aiutato in una campagna elettorale in cui è stato spesso agitato lo spauracchio da lui stesso evocato due anni fa, quello di un podestà straniero, di una nostra perdita di sovranità. Il voto per Grillo e il risultato deludente di Scelta Civica sono stati anche espressione di un diffuso disagio europeo, una ribellione contro un pesante aggiustamento fiscale condotto proprio nel mezzo di una doppia recessione. Eppure le vere insidie alla nostra sovranità nazionale vengono dalla scarsa credibilità della nostra classe politica. Ed è molto grave che le trattative oggi per risolvere la crisi politica ignorino completamente il nostro ruolo nell’Unione perché per poter decidere di più in Italia dobbiamo contare dipiùinEuropa. Untemaricorrenteincampagna elettorale è stato quello secondo cui il nostro paese è governato da Angela Merkel, attraverso il fiscal compact, le regole fiscali che i paesi dell’Euro si sono dati. In verità i vincoli di bilancio pubblico più stringenti ce li siamo inflitti noi stessi. È stato un nostro governo (guidato da Berlusconi) a imporci di azzerare il deficit nel 2013 ed è stato il nostro Parlamento (l’anno scorso) ad introdurre un farraginoso, ma alquanto stringente, vincolo di bilancio in pareggio nella Costituzione. Nessuno ci aveva chiesto di fare tanto. Le regole fiscali europee, il fiscal compact, non implicano un bilancio in pareggio. Prendendo per buone le previsioni del governo nei prossimi tre anni e poi continuando di lì in poi a crescere come nel 2015, potremmo centrare gli obiettivi di rientro del debito anche con (modesti) disavanzi. Perché allora abbiamo voluto legarci le mani? Per un problema di credibilità. Meno credibili i nostri governi, e la nostra credibilità era ai minimi sotto Silvio IV, più stringenti gli impegni necessari a convincere gli investitori privati a comprare i nostri titoli di stato.
L’Europa, oltre ai vincoli che ci impone, offre anche molte opportunità. Basta saperle sfruttare. È una direttiva europea, dopotutto, quella che impone alle amministrazioni pubbliche di pagare i fornitori entro 30 giorni. Colpisce la casta che impone ai cittadini e alle imprese di pagare le imposte, talvolta addirittura in anticipo e retroattivamente, e poi razzola malissimo quando è lei stessa ad essere debitrice. In nome di questa direttiva, dovremmo ora ottenere il sostegno a livello europeo per una liquidazione più rapida possibile dello stock di debito commerciale della PA, ottenendo l’assistenza tecnica della Commissione in modo tale da neutralizzarne gli effetti sulle regole fiscali europee. Presentando l’operazione come una scelta di trasparenza, sostenuta dall’Europa, non avrebbe certo effetti sulla percezione del rischio paese, nonostante comporti un aumento del debito pubblico di circa 4 punti e mezzo di pil. Immetterebbe nel nostro sistema economico fino a 67 miliardi di quella liquidità che oggi non viene fornita dalle banche alle imprese.
Altro esempio: pur in un bilancio ridotto, l’Unione oggi offre, in aggiunta ai finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, 6 miliardi da qui al 2020 per imprecisate iniziative a favore dei giovani in aree caratterizzate da una disoccupazione giovanile superiore al 25 per cento. Il nostro paese purtroppo vanta anche un altro triste primato, quello del più alto rapporto fra disoccupazione giovanile e disoccupazione per le altre fasce di età, indice di una concentrazione del rischio di perdere o di non trovare lavoro tra chi ha meno di 25 anni. Perché allora non chiedere il cofinanziamento europeo di un sussidio condizionato all’impiego che beneficerebbe soprattutto i più giovani? Potremmo prendere spunto dal programma Aufstocker tedesco, coprendo la differenza fra il salario orario netto effettivamente percepito e 5 euro. Questa misura dovrebbe essere accompagnata, per evitare abusi, alla definizione di un salario minimo orario. In altre parole, lo Stato pagherebbe di fatto la differenza fra il salario minimo e 5 euro. È una misura che ha dei costi non indifferenti (tra i 3 e i 4 miliardi di euro), ma che dovrebbe far emergere sommerso e creare lavoro soprattutto fra i giovani, contribuendo in parte al suo finanziamento. E potrebbe, almeno in parte, essere finanziata dall’Unione e per il resto impiegando in modo più efficiente una parte di quei 7 miliardi che ogni anno destiniamo alle politiche attive del lavoro. Non abbiamo, in ogni caso, l’infrastruttura necessaria per attuarle su vasta scala e quando mancano i lavori piuttosto che i lavoratori, le politiche che attivano i disoccupati servono a ben poco.
Per ottenere questi risultati e utilizzare sapientemente la flessibilità che i vincoli europei ci consentono, ci vuole però un esecutivo in grado di prendere impegni ben più lunghi di qualche settimana. Dopo le elezioni tedesche in autunno, un governo italiano nel pieno delle sue funzioni potrà anche giocare un ruolo importante nel fare avanzare l’Unione Europea nell’unica direzione possibile, quella di una maggiore legittimazione democratica delle sue istituzioni sovranazionali. Non è infatti più possibile affidarsi solo alla tecnocrazia della Bce nel gestire la politica economica su scala europea. Abbiamo bisogno di più politica fiscale gestita a livello sovranazionale e, in questo caso, non è pensabile farlo affidandosi a organismi che non abbiano una qualche investitura democratica. I tecnici devono gestire le autorità di controllo, a partire dal Fiscal Council che vigilerà sul rispetto delle regole fiscali comuni, ma è sbagliato pensare che un esecutivo comunitario che gestisce un bilancio comune non sia eminentemente un organismo di tipo politico. Il problema è la scala, nazionale o sovranazionale, sulla quale l’operato di questi politici viene valutato. Significativo il fatto che il Parlamento europeo abbia mercoledì scorso, per la prima volta nella storia, bocciato un bilancio europeo pluriennale, frutto di un accordo intergovernativo pilotato da Germania e Regno Unito, in nome della coesione dell’Unione. Bene allora creare occasioni di investitura sovranazionale di leader europei. Una campagna elettorale europea per eleggere il Presidente dell’Unione, avrebbe il vantaggio di rendere ancora più evidenti agli elettorati nazionali le interazioni economiche fra i diversi paesi, oltre che quelle fra i politici europei. Tra gli effetti di una crescente differenza negli andamenti delle diverse economie europee, c’è anche la forte crescita dei flussi migratori verso la Germania, aumentati di 4 volte dal 2007 in poi. Risiedono per l’80 per cento in diversione diimmigrati extracomunitari che fuggono da Italia, Grecia e Spagna. E aumentano ogniqualvolta lo spread si allarga. L’opinione pubblica tedesca, memore dell’esperienza dell’unificazione, sa bene quanto forti siano le pressioni migratorie quando ci sono aree che hanno differenze di reddito marcate e scarse prospettive di convergenza economica e quando c’è un gran numero di immigrati in altri paesi dell’Unione pronto a spostarsi altrove sfruttando le frontiere comuni. È un ricordo che andrà ravvivato quando si tratterà di fare i primi passi verso quella politica fiscale sovranazionale nell’area dell’Euro di cui proprio non si può fare a meno.
La Repubblica 16.03.13