Questo trentacinquesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro cade in un momento particolarmente delicato della vicenda storica della democrazia italiana. Un momento di crisi che sollecita una riflessione sull’eredità della figura e dell’opera dello statista pugliese e sul significato storico-politico della sua tragica fine. Una riflessione che trascenda i confini del cosiddetto «caso Moro» e si misuri con la parabola complessiva del suo impegno politico. Liberando il prigioniero dalle mura di un carcere che si è proiettato nell’immaginario e nella storiografia in una duplice forma: da un lato con la rimozione della sua azione di statista e di dirigente, oscurata o banalizzata dalla preponderante storiografia sui “misteri” del suo assassinio. Dall’altro con la distruzione morale della sua figura operata dalle Brigate Rosse attraverso la sapiente manipolazione delle sue lettere e la capacità di affer- mare, come ha rilevato Miguel Gotor, l’interpretazione tendenziosa di una «casta» politica (termine in voga presso le Br) che rese inevitabile l’uccisione Moro perché si rifiutò di trattarne la liberazione per ragioni di lotta politica interna.
Al contrario, una adeguata «intelligenza storica» verso la politica e la riflessione di Moro offrirebbe strumenti analitici e concettuali preziosi per com- prendere alcuni caratteri di fondo della crisi della democrazia italiana. Certo, occorre sottrarsi al rischio di analogie e parallelismi affrettati con la situazione odierna, che risultano incoraggiati anche dall’inquietante riemergere nel discorso pubblico attuale e nella dilagante critica contro la democrazia dei partiti di stilemi e di analisi tipici del «partito armato» e del suo allora amplissimo fronte di fiancheggiatori politici e intellettuali. Piuttosto, andrebbe recuperato in tutta la sua densità storico-politica il concetto moroteo di «democrazia difficile».
Da un lato, come prisma attraverso cui comprendere le ragioni di fondo del-e tensioni che attraversavano il sistema politico e che riflettevano la fragilità della nazione italiana e la radicata ostilità di gran parte delle sue classi dirigenti verso il sistema democratico, contribuendo a «condannare» la Dc a una faticosa centralità dovuta alla «impossibilità di una alternativa». Dall’altro lato, come sforzo di inclusione politica e sociale incentrato sul parlamento e volto a superare i limiti derivanti da quella impossibilità, rispettandone al tempo stesso rigorosamente i confini e i vincoli di natura interna e internazionale.
La laboriosa «apertura a sinistra» che portò al centro-sinistra fu la prima espressione di quel metodo e di quell’impianto analitico, che poi di fronte al terremoto politico e sociale esploso nel ’68 si misurò in una ancora più impegnativa «strategia dell’attenzione». Una «attenzione» rivolta al partito comunista pur nella «impossibilità di una comune gestione del potere», ma anche ai fermenti e le proteste giovanili che esprimevano i «tempi nuovi» e in ogni caso testimoniavano «l’immissione della linfa vitale dell’entusiasmo, dell’impegno, del rifiuto dell’esistente propri dei giovani», che «nella società, nei partiti e nello Stato è una necessità vitale».
Di fronte al precipitare della crisi, l’attenzione verso il Pci divenne «uno sforzo di salvezza, il quale non può essere altro che uno sforzo di solidarietà nazionale». Una operazione resa difficile dal fatto che la convergenza richiedeva al tempo stesso «una certa rigidezza, una certa delimitazione di confini (…) che lascia ancora distanti le sponde che pure si vorrebbe avvicinare».
Quel delicato esperimento politico contribuì a salvare la democrazia italiana ma non sopravvisse alle tensioni che lo avevano reso indispensabile e alle resistenze che aveva generato, mentre l’uccisione di Moro rese ancora più insuperabili i già fortissimi ostacoli ad una evoluzione del sistema politico lungo le linee di una moderna democrazia dell’alternanza. Ciò concorse ad attribuire alla transizione italiana quei caratteri peculiari che ancora oggi rendono problematico un suo approdo di tipo europeo. Di fronte a questa persistente difficoltà, una riflessione adeguata sulla figura di Aldo Moro che si affranchi dalle interpretazioni dominanti della storia dell’Italia repubblicana incentrate sulle nozioni di «partitocrazia» e «consociativismo» sarebbe dunque di grande utilità. Contribuendo a superare i limiti che hanno caratterizzato la cultura politica della seconda repubblica, e ponendo delle fondamenta più solide allo sforzo e alla battaglia per edifica- re una nuova stagione della nostra democrazia.
L’Unità 16.03.13
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“Guai se la politica perde la virtù Ce l’ha insegnato Aldo Moro”, di Pierluigi Castagnetti
A trentacinque anni dalla strage di Via Fani non avere mai seriamente messo mano a quell’infragilimento istituzionale che l’evento ha rivelato e determinato, è in gran parte alla base della difficoltà dei nostri giorni
È oggi il trentacinquesimo anniversario della strage di via Fani e dell’inizio della prigionia di Aldo Moro, per mano delle Brigate rosse. Se né è giustamente fatta memoria ieri in parlamento all’apertura della prima seduta di una legislatura difficile e per molti aspetti politicamente “angosciante”.
Il ricordo che come ogni anno anche noi ripetiamo su Europa, ha oggi un sapore diverso: non c’è nulla di retorico o di abitudinario, ma solo la consapevolezza che la nostra democrazia da allora, soprattutto da allora, ha dovuto superare ostacoli e sfide sempre più complessi. Trentacinque anni di tensioni nella vita della repubblica sono tanti e i segni del logoramento sono sempre più visibili.
L’esaurimento della prima repubblica, la fine del comunismo, tangentopoli, Maastricht e l’euro, la scomparsa di tutti i partiti che avevano scritto la Costituzione, il leghismo, Berlusconi e il berlusconismo, la nascita dell’Ulivo, la faticosissima traversata nella crescente arsura valoriale del deserto del primo decennio del nuovo secolo, la tribolata costruzione del Partito democratico, la fine della Seconda repubblica e l’esplosione della perdita di credibilità del “sistema” schiacciato dal peso esorbitante di una crisi finanziaria globale. E, in questi giorni, le prime forme di strutturazione politica della rabbia sociale che ha fatto irruzione nel parlamento sino a determinare la paralisi istituzionale che è sotto i nostri occhi.
Non avrebbe alcun senso fare risalire questa lunga concatenazione di eventi a quel lontano 16 marzo 1978, eppure si può osservare che non avere mai seriamente messo mano al drammatico infragilimento istituzionale che quel lontano evento aveva in parte rivelato e in parte determinato, è in gran parte alla base della difficoltà di questi nostri giorni.
Non ha neppure tanto senso ricercare nel magistero di Aldo Moro soluzioni a problemi che appartengono a una stagione molto distante dalla sua. Da Moro si può invece assumere la sua concezione della politica, intesa in primo luogo come responsabilità e dovere («senza un nuovo senso del dovere questo paese non si salverà»), come capacità di disegnare il futuro, come arte di costruire convergenze e mediazioni, come educazione all “amore” dello stato senza scivolare nella statolatria, come rispetto delle diversità, come religione della misura e del buon senso. Insomma, la politica come virtù e non come fredda servitù. Certo, la politica non è esercizio per anime belle, anzi spesso è forza e scontro, ma guai se perde la virtù, cioè il suo senso. Ricercarne il bandolo è forse l’impresa più difficile e ineludibile oggi.
da Europa Quotidiano 16.03.13