Come in una sorta di sbilenco calendario cinese, eccoci giunti – se i segni del tempo non mentono come gli uomini – nell’era dell’Apriscatole. L’hanno inaugurata ieri sui banchi del Senato i portabandiera della new wave grillina che hanno provveduto a installare con pazienza didascalica un messaggio destinato ai posteri. L’immagine, poi, ha fatto il giro del web e ha certamente superato i confini del piccolo mondo antico che si chiama Italia. Un robusto apriscatole, affidabile, e accanto una spilletta del Movimento Cinque Stelle; il tutto, adagiato sul legno abusato dell’aula di Palazzo Madama; sul fondo, gradinate e figure, ombre di senatori.
Tre i firmatari di questo chiodo simbolico, con nome e cognome: Maurizio Buccarella, Barbara Lezzi e Daniela Donno. Su Facebook, dove hanno postato l’installazione, hanno scritto: «In tre dal Salento, con l’apriscatole in Senato». Una tenera cartolina per parenti e amici e sodali, spedita da un fronte sfavillante dove pare che la guerra non sia, che il Paese non sia in rotta, che chi non ha non sia condannato al sesto grado dell’esistenza. Curioso: in questa «guerra» all’implosione del Paese e alla povertà, il fronte è il luogo più dolce e garantito. L’inferno semmai abita le retrovie, lontano dagli stucchi, dai premurosi commessi, dalle telecamere, dalle interviste negate, dal teatro neoclassico delle verginità negate messo in scena dalle truppe grilline davanti all’allibito pubblico della sinistra.
Per questo, il messaggio Cinque Stelle porta con sé una bella voglia di gioco liceale, la comunicazione di una eccitazione da primo giorno di scuola che surclassa la tensione dei programmi, degli esami, delle lezioni da recuperare. Ci penseranno più avanti, adesso è il momento felice dell’Apriscatole. Nel nome e per conto del Capo. Perché è lui che li ha benedetti al grido: «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno», è lui che li ha messi sulla strada giusta e vien da ridere al pensiero che si stia qui a raccontare e a dare un senso meno scolastico a un evento chiuso in una cartolina spensierata spedita dai banchi della seconda Assemblea del Paese.
Il progetto politico è aprire il Parlamento come una scatola di tonno, il Capo non è lì con loro ma vogliono si sappia che sono con lui e con il suo spirito; sono loro l’anonimo Apriscatole, gli umili servitori della nuova era che cancellerà partiti e sindacati, destra e sinistra, giornali e tv che non si arrendono a questo abbagliante «Sturm und Drang» ornato di nuovi altari, dedito a nuove divinità.
LA RASTRELLIERA DEGLI ARNESI
Tuttavia, il nuovo rappresentato da quel semplice utensile domestico trova immediatamente posto nella sintetica ma significativa rastrelliera di oggetti di consumo chiamati nella prima scena del Paese a nuova soggettività, spinti dal bisogno di marcare altrettanto nuovi valori e nuovi simboli. Oggetti che la storia recente del Parlamento ha provveduto a sistemare in bacheca con infinita pazienza. E questa docilità rispetto alla classificazione del gesto, più che fratture sembra accreditare una fastidiosa circolarità della storia, una lettura della nostra vicenda istituzionale chiusa nella ruota di un irrefrenabile criceto.
Era il 16 marzo 1993, quando un poderoso rappresentante della Lega di Bossi armato di un doppio cognome degno di un re, Luca Leoni Orsenigo, tenne a battesimo sui banchi di Montecitorio l’Era del Cappio. Anche allora pareva si fosse all’alba di un mondo nuovo e al tramonto di una scena decrepita. Stava esplodendo Tangentopoli, un pugno di magistrati stava mettendo a nudo il verminaio custodito dietro le quinte del grande affare e della politica. Leoni Orsenigo, esultante, mostrò il cappio in aula. Uno strumento di morte, la forma di una condanna estrema senza civiltà e senza pietà, testimone, così doveva essere, di una tagliente morale che avrebbe fatto giustizia, finalmente.
IL NODO SCORSOIO
Nel ‘96, l’uomo del cappio si dimise dalla Lega, adesso vive la sua vita lontano dalla politica attiva; la Lega, annega tra gli scandali e le furberie da retrobottega; Bossi, divelto da una manovra degna dei «lunghi coltelli», ora accusa il fido Maroni di avere «un culo troppo grande» per una sola sedia. Ma l’eco di quella immagine tenebrosa e minacciosa tessuta dalla canapa e intrecciata da un nodo scorsoio, tenne a lungo. Finché, il 24 gennaio del 2008, un senatore della destra più severa dal cognome romantico pensò che fosse venuto il suo momento all’alba di un fragoroso tonfo, la caduta del governo Prodi.
Minato da una vigorosa compravendita di parlamentari che ne avevano fracassato l’esile ossatura, quel governo del centrosinistra crollò e Nino Strano, il nostro uomo del destino, tenne a battesimo l’Era della Mortadella. Sui banchi del Senato, stappò spumante e ingollò mortadella a fette intere facendole scendere lentamente nella bocca. Si erano divertiti a ridurre la figura di Romano Prodi, bolognese sorridente ed estimatore della celebre «mortazza», fino ad insaccarla: era Prodi la Mortadella.
Strano, nel 2011, è stato condannato in Appello a due anni e sei mesi per abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale. Sia benedetto il Grande Apriscatole.
L’Unità 16.03.13