Cosa succederebbe nel mondo della scuola se i programmi di Grillo e del M5S venissero realizzati?
Facciamo un esperimento mentale, al netto delle contraddizioni interne, per cogliere i potenziali o reali strati di consenso ai quali il M5S punta.
Il programma del M5S, alla voce “Istruzione”, prevede in sintesi: abolizione della legge Gelmini, abolizione dei finanziamenti alla scuola privata, abolizione del valore legale del titolo di studio, restituzione alla scuola pubblica degli 8 miliardi tagliati, didattica a distanza (e-learning), più internet per tutti, valutazione degli insegnanti da parte degli studenti.
A questo Grillo, nel post “Gli italiani non votano mai a caso” del 26 febbraio [ qui] aggiunge la proposta di abolire stipendi ai pubblici dipendenti sostituendoli con un reddito di cittadinanza (oscillante, stando a quanto dichiarato in campagna elettorale, tra 800-1.000 € al mese):
Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è un dato di fatto, lo status quo è insostenibile, è possibile alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico, i cui interessi sono pagati anch’essi dalle tasse. È una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.
È notevole che Grillo inserisca nel “blocco A” (assieme ai «ragazzi [che] cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie»), «i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano», mentre il “blocco B”, costituito «da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d’acquisto», include «una gran parte di dipendenti statali»: dei quali dipendenti statali, una parte importante è costituita dai lavoratori della scuola.
Si potrebbe ipotizzare che Grillo, che già sembra ignorare che lo stipendio dei lavoratori della scuola è fermo al 2006, nel dichiarare che gli stipendi pubblici ammontino a 4 milioni al mese, abbia idee vaghe o inesatte sul pubblico impiego: in realtà gli stipendi pubblici sono circa 14 miliardi al mese (170 annui). Ma l’esattezza è un dettaglio: conta più far passare il messaggio che pubblici dipendenti, e quindi anche insegnanti e bidelli, siano tra i vecchi garantiti del “blocco B” che vogliono lo status quo e negano il futuro ai non garantiti del “blocco A”.
Andando a vedere oltre le parole, ci si accorge che alcune proposte sono semplici enunciazioni. Cosa vuol dire “abolizione della legge Gelmini”? Quale delle leggi di Gelmini? Il riordino dei cicli, e quindi tornare alla scuola secondaria superiore del 2008? La reintroduzione del maestro unico/prevalente nella scuola primaria? E delle riforme di Brunetta che incidono sulla dirigenza scolastica locale e territoriale che si vuol fare (posto che se ne abbia nozione)? E della riforma Moratti, sulla quale Grillo ironizzava un tempo nei suoi show, e che ora è scomparsa dai programmi elettorali? E dello spoil system che regolamenta i direttori scolastici regionali, che rimonta a Bassanini? Si intende restituire gli 8 miliardi da immettere nelle casse scolastiche dell’attuale sistema scolastico? Si vuol fare quel che si vuol fare con una terapia d’urto, o in modo graduale (quindi con un ciclo di studenti che continueranno a studiare nella scuola di Gelmini)? Tutto ciò, se non è dettagliato in modo concreto, equivale a un “vaffa Gelmini”: si può discutere se sia più efficace, come strategia elettorale, un “vaffa” piuttosto che un “se sta a noi” seguito da verbosissimi cani menati per l’aia dal programma della coalizione di Bersani, ma quanto a sostanza siamo lì.
Diversa, per concretezza, è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, punto di programma condiviso dal Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 di Licio Gelli [verifica qui, al punto b1] e dalla Fondazione per la Sussidiarietà (ovvero Comunione e Liberazione) di Giorgio Vittadini in modo esplicito, in modo implicito da Gelmini (che aveva in Vittadini uno dei consiglieri): è il più grosso favore che può essere fatto alle scuole private, perché consente a qualunque soggetto privato di aprire un diplomificio deregolamentato. Se il prezzo da pagare è la rinuncia a 500 milioni, per le scuole private è un affare.
Vediamo perché.
Il sistema scolastico italiano stabilisce alcuni requisiti di base: numero minimo di ore, un certo numero di contenuti, soprattutto un certo elenco di cose che lo studente dovrebbe saper fare al termine degli studi (le cosiddette “competenze” e “capacità”). E ancora, a cosa serve la scuola: “scuola democratica”, o “costituzionale” significa formare all’esercizio attivo della cittadinanza. Sarà un caso, ma il programma elettorale del M5S era l’unico a non dire cos’è e cosa dovrebbe essere una scuola pubblica.
Il valore legale del titolo di studio è la garanzia che il percorso scolastico sia all’interno di questi parametri, per quanto declinati in modo da consentire una forte disparità tra le scuole private e quelle pubbliche (a favore delle private: vedi la possibilità di formare classi con soli 8 alunni). Chi apre una scuola privata non parificata deve sottoporsi a verifiche: ad esempio, i suoi studenti devono fare l’esame finale in una scuola pubblica. È una garanzia del cittadino, perché tutto questo costa molto di più di un corso di formazione, così come insegnare davvero l’informatica costa molto di più dell’insegnare l’uso di pacchetti di programmi predefiniti: la prima cosa è cittadinanza attiva, la seconda acquisizione passiva di nozioni.
Abolire il valore legale del titolo di studio significa in primo luogo abolire l’obbligo, per la scuola pubblica, di insegnare quelle competenze e contenuti: e, con i chiari di luna che corrono, significa sottoporre ancor di più la qualità insegnamento alla mannaia dei tagli di spesa. In secondo luogo, significa dare mano libera a chi crea scuole confessionali nelle quali non si forma la cittadinanza attiva: che ci sono già (vedi il metodo della “educazione secondo testimonianza” nelle scuole della Compagnia delle Opere/CL, o l’insegnamento del creazionismo in luogo dell’evoluzionismo), ma almeno oggi sono costrette entro certi vincoli, per quanto tenui. O scuole aziendali che promettono l’inserimento in azienda ai 18 anni, a scapito della formazione del futuro cittadino: e il modello in nuce, gli ITS creati in joint venture con Finmeccanica, c’è già.
L’abolizione del valore legale del titolo di studio equivale alla liberalizzazione dell’istruzione: quel modello anglosassone citato come esempio da Vittadini, Ichino (Andrea) e Checchi nel documento del 2008 in cui suggerivano a Gelmini di «collegare i risultati della valutazione [delle scuole] a misure di natura premiante o penalizzante per i budget delle singole scuole», tra le quali «reclutamento e rimozione degli insegnanti». Un modello che oggi sottoposto a critiche radicali perché ha portato alla formazione di poche scuole d’élite e alla catastrofe delle scuole pubbliche, soprattutto di quelle che non sono nel centro cittadino ma nelle periferie, nei quartieri di immigrati, ecc. E lo stesso accade in Francia e negli USA. Senza contare una peculiarità del sistema scolastico parificato italiano (uno dei rari paesi OCSE in cui ciò accade), dove le scuole private sono ben più scadenti di quella pubblica.
A ciò si aggiunga che il crollo degli stipendi degli insegnanti, dagli attuali 1.200 € in ingresso o in precariato ai 1.500 dopo 15 anni di carriera ai 1.000 del “reddito di cittadinanza”, e l’apertura di una pletora di diplomifici privati in grado di offrire più di quei 1.000 €, anche se con contratti a termine porterà a un’emorragia dal pubblico al privato degli insegnanti, scelti fior da fiore dai gestori delle scuole private con potere di sindacare (magari attraverso la “valutazione”) su stili di vita, orientamenti politici, religiosi e sessuali. Per non parlare dei diplomifici che venderanno neanche didattica reale, ma pacchetti di e-learning, in virtù della deregolamentazione consentita dall’abolizione del valore legale del titolo di studio.
E che dire dei migranti, il cui impegno scolastico non sarà garantito dal titolo di studio? I coccodrilli che davano il titolo al libro di Fabio Geda ed Enaiatollah Akbari non sono forse nel mare: ma esistono, hanno denti aguzzi e si preparano a cambiare referente politico.
da www.carmillaonline.com
3 Commenti