Francesco come il santo d’Assisi . Come nessuno dei successori di Pietro aveva fin qui scelto di chiamarsi. L’elezione di un nuovo Papa porta sempre con sé un sentimento di speranza, al tempo stesso laico e religioso. Ma questa volta, in quel nome, c’è qualcosa di prorompente: c’è uno spirito, una promessa, una domanda che scuote la Chiesa e insieme interroga «gli uomini di buona volontà». L’allegria di Francesco che sconvolge il conformismo dei benpensanti. La povertà di Francesco che ribalta le gerarchie del successo. La fraternità di Francesco che travolge l’individualismo e l’egoismo.
La Chiesa attraversa una crisi nella modernità secolarizzata. Gli scandali e i corvi sono, al fondo, l’epifenomeno di numerose difficoltà. Il messaggio evangelico va controcorrente rispetto ai valori oggi dominanti. L’anelito alla trascendenza si scontra con un pensiero che vive solo nell’immanenza, e talvolta solo nel presente.
Il perdono, che è parte essenziale della fraternità cristiana, è oggi una parola quasi impronunciabile tra mille paure e rancori. Eppure la testimonianza della Chiesa, in questo passaggio epocale, spesso non è all’altezza. Non sono all’altezza le sue strutture, le relazioni tra chiese locali e chiesa romana, la scarsa collegialità. E talvolta la sua immagine tradisce conservazione del potere, privilegio, distacco. C’è anche un difficile adattamento alla società globale della comunicazione: e forse non potrebbe essere altrimenti, essendo il cristianesimo fondato su un incontro «personale» che cambia la vita.
La Chiesa, come scrive don Giovanni Nicolini in un articolo sul nostro giornale, non è una società di giusti, ma una comunità di peccatori. E l’umiltà del gesto di Benedetto XVI le ha offerto una straordinaria opportunità di cambiamento. Una ripartenza. Dalla coscienza di un limite alla speranza di un tempo nuovo, che faccia rifiorire i germogli del Concilio, che trasmetta una fede autentica, che riporti i cristiani sulle strade del mondo accanto a tanti altri uomini, che magari non credono ma recano nel loro volto e nei loro gesti la stessa domanda di giustizia.
Papa Francesco è oggi una promessa per la Chiesa. Lo conosceremo. Ha un’origine italiana ma parla spagnolo, come ormai la maggioranza dei battezzati. Abbiamo intuito che in quel definirsi «soltanto» vescovo di Roma c’è un’idea di Chiesa universale come condivisione tra chiese locali. Ma quel che ha più colpito nelle prime parole da Papa è stato il richiamo al «popolo», la richiesta al «popolo» di benedirlo (attraverso la preghiera): dopo le dimissioni di Ratzinger il ministero di Pietro è meno regale, e più proiettato nella dimensione conciliare della fraternità. Francesco fu un innovatore, e partì da una rottura con la gerarchia del tempo. I cattolici hanno capito, guardando il nuovo Papa in tv, che saranno chiamati a partecipare al rinnovamento. Perché non ci sarà cambiamento senza popolo, senza condivisione, senza rimettersi in gioco. Ma la sfida va oltre la comunità dei credenti. Riguarda le società occidentali, i Paesi ricchi, le inaccettabili diseguaglianze mondiali, lo sfruttamento, le libertà negate, gli egoismi individuali e di classe, i diritti delle donne, e si potrebbe continuare a lungo.
La fede religiosa è una riserva di speranza per il futuro dell’uomo e per un cambiamento nel segno dell’uguaglianza. È una riserva anche quando la stessa Chiesa zoppica o si mette di traverso, per qualche ragione storica o politica. Speriamo che Francesco mantenga la grande, emozionante promessa contenuta nel suo nome. La povertà, il sorriso, la fiducia, la condivisione: quanto ne ha bisogno l’uomo moderno. Abbiamo bisogno di andare oltre gli errori compiuti. Abbiamo bisogno di ritrovare un popolo che salvi la persona dalla sua solitudine di fronte ai «mercati». Il cambiamento nel segno dell’uguaglianza è oggi anche la più alta aspirazione laica e civile.
L’Unità 14.03.13