SI È creata d’improvviso quiete, il 7 marzo all’Eurotower di Francoforte, quando Mario Draghi ha parlato dell’Italia. Il Presidente della Bce ha il carisma dello statista che non conosce intranquillità, e quasi ironizza sull’«eccitazione dei politici e dei giornalisti» di fronte ai verdetti delle urne.
I giornalisti in sala stampa ridono, grati a chi li deride. Il messaggio è stato presto interpretato come un elogio della democrazia, imprevedibile di per sé: «I mercati sono stati meno impressionati dei politici e di voi giornalisti. Capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, ognuno ha due turni elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34 elezioni in 3-4 anni: penso sia questa la democrazia, a noi tutti assai cara». Ecco uno che dice pane al pane – è stato detto – e non si eccita per lo strepitoso successo di Grillo: qui da noi c’è crisi di nervi, ma non lontano, nell’Unione, tutto è come nel canto di Goethe sugli alberi che svettano verso il cielo notturno: « Su tutte le cime, è pace; in ogni chioma, senti appena un alito; tacciono gli uccellini nella selva. Aspetta, presto anche per te c’è pace» (pace sta per morte, nel poema).
Ma Draghi ha detto qualcosa di meno placido, sul voto italiano e le sorprese (brutte o belle) che la democrazia ci riserva, specie nei paesi debitori. Ha spiegato il perché di tanta quiete, ai vertici d’Europa. Ha parlato ai mercati, e a loro nome. Dopo essersi inchinato alla democrazia ha aggiunto, quasi
en passant, che l’austerità continuerà tale e quale, divinamente indifferente a quel che mugghia nei bassi mondi. In altre parole: la democrazia può emettere le sentenze che vuole, ma nelle chiome dell’Unione e dei mercati se ne udirà appena l’alito. Perché non c’è da preoccuparsi? «Dovete considerare – così Draghi completa il ragionamento – che gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico». Nulla turba «l’unità d’intenti dei governi».
L’intranquillità è d’obbligo invece, è anzi utile in epoche di crisi-trasformazione, e l’immagine del Pilota Automatico conviene pensarla, discuterla, in Italia e Spagna, Grecia, Portogallo. L’autopilota, com’è noto, è il dispositivo che fa avanzare il veicolo senza assistenza umana. È impersonale, non si cura del singolo e degli elettorati, ed è il contrario della democrazia. Molti arguiscono che Draghi prende magnanimamente atto del gioco d’azzardo racchiuso nell’urna: «È la democrazia, bellezza! ». In effetti il governatore ha detto altro, facendosi paracleto dei nostri creditori, quindi dei mercati: «È il pilota automatico, bellezza!». Gli Stati possono osare, perfino inciampare, proprio perché sono ormai guidati da dispositivi esterni (trojke, Patti inviolabili), e nulla possono contro di essi. Di fatto, l’Italia è già commissariata, dunque calma e gesso, fatti giunco, la tempesta passerà. Dice passerà:
non come, né se sarebbe forse meglio sostituire al dispositivo un governo fatto di uomini, e avere statisti europei con carisma non solo alla Bce.
In realtà viviamo da decenni in queste condizioni: fin dall’ascesa politica di un boss delle Tv che era ineleggibile (una legge del ’57 poteva impedirlo, e l’appello di Micromega che lo rammenta ha raccolto oltre 180.000 firme). I parametri di Maastricht che regolano i deficit pubblici, e fecero nascere l’Euro nel 2002, spiegano la tenuta dell’Unione e al tempo stesso la sua strana impassibilità, che è segno sia di forza sia di immobilità. Da vent’anni esistono vincoli economici tali, nell’eurozona, che negli Stati si può temporaneamente giocare a far politica.
L’euro ci evita disastri non solo economici, ma senza Europa politica può sortire questi effetti. Ogni Stato diventa una specie di rione municipale, dove le più varie sperimentazioni (buone e non) diventano possibili: il pilota automatico le incanalerà. Il potere vero ha cambiato sede ed è una virtual machineche simula il politico. Quella macchina varrà la pena trasformarla in sovranità del popolo europeo, se non vogliamo che ci bombardi come un drone.
Ecco come stanno le cose, che i governi, i giornalisti, la Rete stessa fingono di non vedere. Ecco il momento che viviamo, e non è la prima volta che la letteratura lo racconta meglio dei politici. Chi non conosce il Saggio sulla Lucidità di José Saramago, corra a leggerlo (mirabile la traduzione di Rita Desti): perché descrive quel che ci sta accadendo, così come a suo tempo L’Uomo senza Qualità narrò l’impero austro-ungarico che tracollava nonostante le pompose Azioni Parallele decise a salvarlo.
Il romanzo apre sulle elezioni che si svolgono nella capitale d’un paese europeo (è Lisbona, esperta in terremoti). Anche qui, fenomenale sorpresa. Nonostante la boria dei 3 partiti dominanti (il Partito di destra, Pdd — il Partito di Mezzo, Pdm — il Partito di sinistra, Pds), gli elettori emettono il seguente inaudito verdetto, chiamato spregiativamente «biancoso»: voti validi 25 per cento, Pdd 13, Pdm 9, Pds 2,5. Pochissimi voti nulli, pochissime astensioni. Le altre schede, più del 70 per cento: bianche.
Subito è catastrofe nei palazzi del potere, e una settimana dopo si rivota: i partiti cadono ancora, schede nulle più astenuti zero, schede bianche 83 per cento. Segue lo stato d’eccezione. A un certo punto il governo diserta la capitale, s’insedia altrove, accerchia la città per piegarne l’incaponita, incredibilmente mansueta riottosità. Tronfio, minaccioso, il Capo dello Stato interviene in Tv: «Vi parlo con il cuore in mano… ora siete una città senza legge… non avrete un governo… Prendete la severità dei miei avvertimenti non come una minaccia ma come un cauterio per l’infetta suppurazione politica che avete generato nel vostro seno». I giornalisti, che nulla avevano subodorato, «condannano con energica tinta d’indignazione civica la strana funesta perversione» cittadina.
I piloti automatici possono tuttavia schiantarsi, non hanno la stoffa degli alberi goethiani. E si schianteranno, se l’Europa non si trasformerà e subito: non quando gli Stati avranno fatto, come dicono i custodi dei dogmi, «i compiti a casa». Il voto italiano dice una gran voglia di cambiare, ma è una prima e disordinata tappa. La seconda sarà il rinnovo del Parlamento europeo fra solo un anno. È allora che toccherà mettere al posto del pilota automatico poteri sovrani legittimati democraticamente. Il Presidente della Commissione dovranno stavolta sceglierlo i cittadini europei, non gli Stati fatiscenti.
È il senso della lettera che Luigi Zanzi, federalista, docente di teoria della storia all’Università di Pavia, ha inviato a Monti, Bersani, Renzi, al M5S e a Napolitano e Draghi, subito dopo il voto italiano: dobbiamo «cogliere al volo l’occasione delle elezioni europee del 2014 per proporre al Popolo Europeo di votare un mandato al Parlamento europeo per la convocazione di un’Assemblea Costituente», che riformi le istituzioni comunitarie «in vista di uno Stato federale in Europa». Così i popoli verrebbero chiamati a «intervenire nel governo d’Europa e, finalmente, i grandi problemi politici potrebbero essere affrontati nella giusta dimensione continentale che essi richiedono».
La tragedia è che tutti i politici italiani (M5S compreso), fanno come se avessero tempo in abbondanza. Non ne hanno. La casa brucia, e noi stiamo qui a dissertare sul ruolo degli intellettuali. Ci inventiamo perfino un Grillo antisemita. Consideriamo la disperazione cui è giunta Atene: l’indecenza di una cura mortifera, gli ospedali impossibilitati a comprare medicine, l’ascesa d’un partito nazista, l’indifferenza dei mercati a questo sfascio. L’impoverimento deprime, senza redimere: è peggio di una recessione. Non per molto tempo Grillo riuscirà a incanalare le paure. A dare una mano per mettere uomini, al posto del caporalesco Pilota Automatico.
La Repubblica 13.03.13