Fa paura lo stallo post-elettorale. Perché c’è un’Italia che soffre, perché l’Europa è tuttora intrappolata in una politica suicida di austerità, perché la quiete dei mercati non durerà a lungo senza risposte efficaci, perché siamo alle prese con una frattura politica e sociale che mette a rischio la stessa unità del Paese. È una crisi di sistema quella che il voto ha squadernato. Ma in questo risultato c’è anche l’opportunità di cambiare e di ripartire. Anzi, si può ripartire proprio perché gli elettori hanno chiesto un cambiamento profondo. Il Pd pensava che il suo progetto avesse la capacità di rassicurare sulla tenuta dell’Italia, e al tempo stesso la forza di promuovere un’opera di ricostruzione. Gli elettori invece lo hanno percepito al di sotto della necessità di innovazione della politica. Ora il passaggio è reso difficile non solo dai numeri, ma anche dall’urgenza di una soluzione. Il Pdl, purtroppo, non aiuta: il Paese avrebbe bisogno di una destra democratica, europea, capace di assumersi all’occorrenza una responsabilità nazionale. Invece è sempre più arroccata in difesa di Berlusconi, una difesa addirittura nei processi e dai processi, fino a minacciare conflitti istituzionali devastanti, senza neppure un dubbio di fronte ad ipotesi di corruzione politica (come la compravendita di senatori per ribaltare la maggioranza scaturita dal voto) che si configurano come un sostanziale attentato alla Costituzione.
Anche il tandem Grillo-Casaleggio, che deve la fortuna elettorale al carattere anti-sistema della contestazione, rappresenta oggi un ostacolo alla trasformazione della domanda di rinnovamento in riforma politica. Grillo ha una visione tendenzialmente autoritaria e farà di tutto per sottrarsi alle responsabilità conseguenti al consenso ricevuto: il suo desiderio è che, alla fine, Pd, Pdl e centro si raccolgano attorno a un governo di cui i Cinque Stelle siano i soli oppositori. Eppure al di là del pericolo che Grillo obiettivamente rappresenta per la democrazia costituzionale, i voti raccolti dal suo movimento sono l’espressione di un’esigenza di cambiamento, alla quale solo dei pazzi possono rispondere con una chiusura o con trovate tattiche.
Le forze del cambiamento debbono raccogliere la sfida. Il che non vuol dire piegarsi all’onda, perdere lo spirito critico, oppure abbandonare quelle convinzioni che affondano le radici nella Costituzione (e nel sacrificio di una grande generazione di italiani, i nostri padri, che ci hanno regalato decenni di prosperità e di crescita nei diritti). Il confronto sarà duro. Ma l’opportunità è concreta. Il cambiamento, negli ultimi dieci anni di dominio berlusconiano, era impossibile. Persino nei mesi del governo Monti, nonostante il premier fosse favorevole a norme con standard europei, è stata bloccata una legge anti-corruzione, capace finalmente di colpire il falso in bilancio e il reato di autoriciclaggio, soprattutto capace di consentire le sentenze prima che scatti la prescrizione breve. E il cambiamento è ancora più necessario quando si affronta la questione sociale, cioè il lavoro che manca, le imprese che vengono tassate più delle rendite, le disuguaglianze crescenti, l’impoverimento dei ceti medi, le famiglie che non nascono perché si ha paura del futuro. La svolta politica serve anzitutto ad un cambio di rotta su questo terreno: se la politica resta impotente sui temi decisivi per la vita delle persone, sarà travolta dall’accusa di costare troppo e di non servire a nulla.
Il Pd e il centrosinistra hanno subito una sconfitta. Ma se la sinistra è il cambiamento – nel senso della democrazia, dell’uguaglianza, del lavoro – deve usare le leve dell’innovazione che il risultato elettorale le ha messo a disposizione. È un sentiero stretto, strettissimo. Sull’orlo di un burrone che minaccia la nazione. Anzi l’intera Europa, per la quale vale lo stesso principio: l’unica speranza di salvezza è il cambiamento. Senza innovazione (che vuol dire integrazione democratica e cambio delle politiche economiche) l’Europa potrebbe non esserci più. Bisogna dire la verità e chiedere a tutti, avversari politici compresi, che è tempo di prendersi le responsabilità che il voto ha posto sulle spalle di ciascuno.
Bersani si è detto pronto a guidare un governo, anche se esso non avrà una maggioranza precostituita e dovrà guadagnarsi legge per legge il consenso del Parlamento. Per sostenere questa proposta, ha disegnato un nuovo rapporto tra governo e Parlamento. Il Pd è disposto a sostenere presidenze di Camere e di commissioni di altri partiti, senza esclusioni. Si potrebbe adottare il metodo vigente a Strasburgo: presidenze di commissione distribuite con criterio proporzionale tra i gruppi. Sarebbe una rivoluzione nella vita parlamentare: dopo due decenni di declino delle Camere (fino all’abuso dei maxi-emendamenti governativi e ai ripetuti voti di fiducia), si potrebbe tornare a un rapporto trasparente e dialettico tra esecutivo e Parlamento, con le forze che non fanno parte del governo impegnate a svolgere in modo più penetrante il loro potere di controllo.
Un punto, però, deve essere chiaro: neppure al movimento di Grillo è consentito di scappare. La soluzione «greca» – con Pd, Pdl e centro costretti in una sorta di maggioranza obbligata – è l’esempio da non seguire. Non per ragioni di convenienza politica, ma perché sarebbe una catastrofe democratica e perché ha già dimostrato, appunto in Grecia, che conduce al peggio. Centrodestra e Cinque Stelle coltivino pure la loro diversità politica, ma accettino il confronto in Parlamento senza spingere l’Italia alle urne. Per Grillo non si tratta di compromettersi con il Pd in un’alleanza politica che nessuno pretende, bensì di utilizzare l’apertura del centrosinistra per ottenere alcuni risultati programmatici e per verificare altre sue proposte in un libero confronto. Il tema è l’Italia e l’Europa che vogliamo. Se qualcuno vuole solo lo sfascio, lo dica chiaramente.
L’Unità 10.03.13