Solo i miopi attori del provinciale teatrino italiano possono credere alla quiete apparente che regna sui mercati finanziari. L’Italia non è il Belgio. Né per estensione geopolitica, né per dimensione socio- economica. Di fronte a un Paese «sgovernato» la comunità degli affari e l’establishment internazionale non possono indulgere troppo a lungo. Lo spread sui nostri titoli di Stato, che da tre giorni staziona miracolosamente intorno a quota 300, è solo «caos calmo». Pronto a riesplodere e a rifarsi «violento » di fronte al perdurare dell’instabilità.
DUNQUE c’è poco da illudersi. Come dice giustamente il presidente della Repubblica, «la crisi non aspetta». L’Italia deve superare in fretta questo momento, e «darsi al più presto un governo ». In questa chiave la bocciatura decisa da Fitch, che ha retrocesso il nostro debito sovrano appena due gradini al di sopra del girone infernale denominato «spazzatura», suona davvero come l’ultima chiamata.
I «signori del rating», per fortuna, non sono più da tempo i padroni del nostro destino. Le agenzie che decidono, spesso in conflitto di interessi, sul «merito» delle nazioni, sono screditate e delegittimate. Obama le ha persino denunciate, per aver inflitto un downgrading immeritato all’America. La mossa di Fitch, che segue quelle analoghe di S&P e Moody’s, non va quindi giudicata con enfasi eccessiva. Ma nella palude in cui sta sprofondando l’Italia può rivelarsi una scossa salutare, ai partiti e alle istituzioni.
Perché si muovano. Perché facciano presto a riportare il Paese alla normalità politica e alla funzionalità democratica.
Le motivazioni usate dagli analisti, per giustificare la retrocessione italiana e l’outlook negativo che ne consegue, sono inequivoche. Oltre al debito pubblico (che viaggia verso il 130% del Pil), oltre alla recessione ormai strutturale (che si conferma «una delle più profonde in Europa»), pesa soprattutto «il risultato inconcludente delle elezioni». E il prevedibile sbocco verso «un governo debole che potrebbe essere più lento e meno capace di rispondere agli shock economici interni e internazionali». Una volta tanto, le agenzie di rating esprimono valutazioni condivisibili, e oggettivamente incontrovertibili.
Questo preoccupa, nella commedia italiana che precipita pericolosamente verso la tragedia greca. Non solo l’affermazione di una forza esplicitamente anti-sistema, come il Movimento di Beppe Grillo, che incarna una forma nuova di «populismo digitale» capace di rimettere in discussione le regole della democrazia rappresentativa. Non solo la formazione di una «stranissima maggioranza» trasversale tendenzialmente anti-europea, come la somma di M5S-Pdl-Lega, che esprime un ribellismo radicale capace di rimettere in discussione i patti sottoscritti con l’Unione. Quanto piuttosto l’assenza di una prospettiva di governabilità di medio-lungo termine, che possa fare dell’Italia un interlocutore affidabile per le cancellerie e credibile per i mercati.
Nel Palazzo si discute, nell’economia reale si muore. Nel 2012 sono scomparse dalla scena industriale 104 mila imprese. Due famiglie su tre dichiarano un livello di reddito che non gli permette di arrivare a fine mese. Le banche non danno più credito. A gennaio i prestiti al settore privato sono diminuiti di un altro 1,6%, e le sofferenze sono esplose al 17,5%. La morsa della crisi si stringe ormai non più solo sulle aziende manifatturiere, ma sulle stesse aziende di credito, alle quali le regole severissime di Basilea III impongono un rafforzamento dei ratios patrimoniali e le norme durissime della Banca d’Italia ingiungono una svalutazione del 20-25% sulle garanzie reali accantonate a fronte dei prestiti «difficili ». Questo riduce i margini di bilancio, abbatte utili e dividendi e stringe ancora di più il cappio di un già soffocante
credit crunch.
Il fatto che la speculazione mondiale, per adesso, sia rimasta in finestra a osservare le convulsioni economiche e le contorsioni politiche dell’Italia non può tranquillizzare nessuno. È vero che il differenziale dei rendimenti sui Btp, anche rispetto a quelli spagnoli, non sembra riflettere l’insorgenza di un rischio- Italia incombente. Ed è altrettanto vero che, a confermarlo, gli stessi cds (le «polizze di assicurazione » contro il default di un Paese) sono scesi nel nostro caso a quota 270. Ma tutto questo non nasce dalla benevolenza dei mercati verso l’Italia. Ad agire, in positivo, è un più generalizzato mutamento dello scenario nell’Eurozona.
La gravità della recessione ha inchiodato quasi tutti i Paesi a scostamenti sempre più marcati rispetto agli obiettivi di bilancio fissati dai fiscal compact. Questo produrrà un allentamento diffuso del «rigore necessario», e una frenata concordata nel processo di consolidamento fiscale dell’Unione, per la prima volta con la benedizione dei «falchi luterani» del Nord e di Angela Merkel, che di qui alle elezioni tedesche di settembre non vuole turbolenze. Di questo si avvantaggia l’Italia che di fatto, pur essendo il Paese più disastrato sul piano della crescita e dell’occupazione, ha raggiunto il pareggio di bilancio strutturale, cioè corretto per il ciclo economico.
L’ha pagato carissimo, in termini di distruzione di ricchezza e di posti di lavoro. Anche per questo la tregua sui mercati non durerà. Senza un «governo qualunque», che affronti almeno le emergenze economiche più pesanti e le scadenze europee più stringenti, il Paese finirà di nuovo e inevitabilmente nel mirino della business community.
Qualche avvisaglia minima c’è già stata, se è vero che nel solo mese di febbraio, cioè tra il prima e il dopoelezioni, gli operatori esteri hanno già dirottato altrove almeno 20 miliardi di euro, disinvestendo dai bond tricolore. Ma questo è niente, rispetto a quello che può ancora
succedere se Giorgio Napolitano non riuscirà a convincere i leader a trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui siamo finiti dopo il voto di due settimane fa.
Si sbaglia chi immagina che a salvarci possa essere di nuovo Mario Draghi, con il generoso ombrello della Bce che ci ha abbondantemente coperto nell’ultimo anno e mezzo. Non c’è alcun «pilota automatico » a garantire l’Italia in Europa e nel mondo. Quella pronunciata da Draghi giovedì scorso è solo una «bugia vera», tanto rassicurante quanto inconsistente. Da italiano, il presidente dell’Eurotower ha cercato di farsi garante del Belpaese, in un momento di entropia politica senza precedenti. Il tentativo è encomiabile, ma la spiegazione non regge.
Non è vero che «i mercati sono ragionevoli» e «comprendono che viviamo in democrazia»: se fosse davvero così non avrebbero sfiduciato il governo Berlusconi, come per altro meritava. E non è vero che i mercati «sono meno impressionati dei giornalisti e dei politici italiani » per quello che sta accadendo a Roma: se fosse davvero così due giorni dopo l’esito rovinoso delle elezioni, e alla vigilia della visita in Germania del Capo dello Stato, non sarebbe stato il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble in persona a dire che «l’Italia deve avere un governo stabile rapidamente», per evitare «un rischio di contagio che ora si può allargare anche agli altri Paesi Ue».
Aspettiamo, prostrati, sotto il vulcano. Tra una metafora zoologica di Bersani, un’intemerata demagogica di Grillo, e una congiuntivite «psico-somatica» di Berlusconi. Per questo persino l’ultima chiamata di Fitch può aiutare, sempre ammesso che qualcuno la ascolti.
La Repubblica 09.03.13