Le donne sono il primo Altro degli uomini e nell’immaginario maschilista sono le depositarie insieme del passato e del futuro, delle tradizioni e dell’identità della nazione così come della sua continuità.
(da “Contro il decoro” di Tamar Pitch – Laterza, 2013 – pag. 12)
Finora, nel gergo dell’informazione quotidiana, li abbiamo chiamati sbrigativamente reati passionali, delitti d’onore, raptus di follia, drammi della gelosia. Ma in realtà sono omicidi di genere, commessi dagli uomini contro le donne, come atto estremo di una serie di abusi, sopraffazioni e brutalità, spesso all’interno della stessa famiglia. Per motivi sessuali, di prepotenza o di sfruttamento.
Il femminicidio, per usare il neologismo coniato già per la strage di circa cinquemila ragazze compiuta in vent’anni nella città messicana di Ciudad Juarez, non è però soltanto un fenomeno criminale. Ha anche una dimensione mediatica, di comunicazione e di cultura. E perciò interpella direttamente tutti noi, operatori dell’informazione, in rapporto alle rispettive responsabilità.
È stata dunque un’iniziativa più che apprezzabile quella promossa dalla Commissione Pari opportunità dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti Rai, sotto il titolo “Donne e informazione: ricominciamo dai giovani”. Proprio da loro, infatti, è opportuno partire per cercare di rompere la sottocultura maschilista che costituisce l’humus di certi comportamenti aggressivi e violenti. Con questo obiettivo dichiaratamente pedagogico, negli ultimi due giorni i colleghi dell’Usigrai sono entrati nelle scuole e nell’università di diverse città italiane, in occasione della Festa della donna, per lanciare una campagna di rieducazione civica.
Non c’è dubbio che la televisione e il cinema abbiano sfruttato più di tutti gli altri media l’immagine femminile, contribuendo così ad alimentare una mentalità sopraffattrice. La donna come oggetto di desiderio e di concupiscenza. Ma anche come vittima designata di una violenza latente che può arrivare, appunto, a degenerare fino al femminicidio.
È anche questa, in fondo, una forma di razzismo o di schiavismo che pretende di rivendicare al maschio – padre, marito o compagno – una presunta superiorità di genere. D’altra parte, secondo la stessa cultura cristiana, Eva non sarebbe nata da una costola di Adamo? Quasi fosse un essere inferiore, una parte o una derivazione dell’uomo.
A ben vedere, è proprio intorno alla figura femminile che ruota il degrado della nostra società verso l’indecenza pubblica e la mancanza di decoro. Il sessismo declinato come segregazione ovvero sfruttamento: in famiglia o nel lavoro, in privato o in pubblico. Ed è anche attraverso una comunicazione improntata a un modello diseducativo che la donna rischia di essere considerata un soggetto sociale di rango inferiore, sottoposto per diritto naturale alla volontà o al dominio maschile.
Ecco un campo privilegiato in cui il servizio pubblico televisivo, se mai volesse, potrebbe distinguersi nettamente dalla concorrenza privata, rifiutando gli stereotipi anti-femministi che imperversano sulla tv commerciale: dall’informazione all’intrattenimento, dalla fiction al reality. Non si tratta, evidentemente, di tornare indietro al bigottismo né tantomeno alla censura del vecchio monopolio Rai. Ma piuttosto di tutelare l’identità della donna e valorizzarne il ruolo nella società moderna, per incrementare un orientamento di maggiore rispetto e considerazione nei suoi confronti.
Rincresce, perciò, che il vertice della Rai non abbia accolto la richiesta del sindacato di dedicare a questo tema una trasmissione di approfondimento in prima serata. Non si rischia di essere troppo severi a giudicarlo come un segno di insensibilità rispetto a una questione sociale che riguarda l’intera comunità nazionale. Ne deriva purtroppo un’ulteriore conferma che il nostro servizio pubblico non è incline a interpretare la propria funzione istituzionale in ragione di una crescita generale della collettività.
Il femminicidio, come tutte le manifestazioni di violenza, si può contrastare più prevenendo che reprimendo. E cioè sradicando il fenomeno dall’habitat sociale e culturale in cui alligna. Vale a dire rimuovendo le prevenzioni, i pregiudizi, le ostilità che più o meno consapevolmente i mass media favoriscono. Se oggi è senz’altro opportuno aggiornare il nostro Codice deontologico professionale, questo è un punto da cui non si deve assolutamente prescindere.
La Repubblica 09.03.13