E ancora una volta gli aveva affidato il comando delle operazioni, diciamo così, sotto copertura. Il guaio numero uno, il Grosso Guaio, era che il Polo aveva vinto le elezioni del 27 marzo 1994 ma non aveva la maggioranza al Senato: servivano almeno altri tre voti, oltre ai suoi 156, per ottenere la fiducia. Il guaio numero due, il problema del giorno, era che alla prima votazione per il presidente del Senato era in vantaggio Giovanni Spadolini. Ed era stato proprio Previti, quando Berlusconi era tornato dal Quirinale rivelando di aver confidato a Scalfaro la propria disponibilità a votare per Spadolini, a stopparlo seccamente: «Abbiamo vinto noi, le presidenze ce le prendiamo tutte e due: la Pivetti alla Camera e Scognamiglio al Senato ». Berlusconi, alla fine, si era convinto. Ma adesso le cose non stavano andando come dovevano andare, e Previti era a caccia di voti. «Ci hanno presi uno per uno, promettendoci questo e quello» confidò sottovoce a un cronista il romagnolo Romano Baccarini, senatore centrista e dunque – sulla carta – corteggiabile. Previti non saltò nessuno. Dagli autonomisti altoatesini agli ex democristiani siciliani, li prendeva sottobraccio e li mollava solo dopo aver avuto una risposta: sì o no. Luigi Grillo, senatore ligure, confessò a un amico: «Quel Previti mi ha fatto impressione. Mi ha detto: noi siamo vincenti, vogliamo vincere e siamo certi di vincere».
Nessuno sapeva cosa stesse promettendo Previti, ma il capogruppo dei popolari, Nicola Mancino, mise le mani avanti: «Spero che non sia in atto un mercato delle vacche». Berlusconi fingeva di disinteressarsene: «Ma quale campagna acquisti! Altri spendono il mio nome, io non ne so niente ».
Il momento della verità arrivò il giorno dopo, quando venne il momento della quarta votazione, quella decisiva. «Votanti 325, Scognamiglio 162 voti, Spadolini 161. Proclamo eletto…». Per un voto, un solo voto, Scognamiglio aveva conquistato la seconda carica della Repubblica. Previti aveva portato a termine un’altra missione.
A differenza dei voti di fiducia, quando si elegge un presidente il voto è sempre segreto, e dunque non sapremo mai chi fu a passare dall’altra parte. Eppure, osservando con gli occhi di oggi la tecnica, i protagonisti e il risultato, potremmo dire che quella fu assai probabilmente la prima “Operazione Libertà” organizzata da Silvio Berlusconi, tredici anni prima di lanciare quella per la caduta del secondo governo Prodi, comprando il senatore Sergio De Gregorio con tre milioni di euro.
Poi Previti si occupò anche del Grosso Guaio: i numeri per la fiducia. Ma quella fu una manovra più raffinata, ad amplissimo raggio e con tutto il campionario degli argomenti persuasivi. Ce n’era uno oggettivo, limpido: Berlusconi aveva vinto la sfida con la «gioiosa macchina da guerra» della sinistra, perciò aveva il diritto politico di governare. Questa tesi aveva convinto tre senatori a vita, Cossiga, Leone e Agnelli, ma non altri cinque: Andreotti, De Martino, Valiani, Spadolini e Taviani, e dunque le cose si stavano mettendo male. Bisognava che qualcuno, invece di votare no, votasse sì. O almeno che uscisse dall’aula, facendo abbassare il quorum (e il numero dei no). E quel qualcuno arrivò. La mattina del 18 maggio, quando Palazzo Madama votò la fiducia, quattro senatori del Ppi non risposero all’appello. Il primo era Luigi Grillo: già, proprio quello che era rimasto
«impressionato» dalla capacità persuasiva di Previti. Gli altri erano Stefano Cusumano e Tommaso Zanoletti. Più il produttore Vittorio Cecchi Gori, la cui assenza fece perdere le staffe al più flemmatico dei suoi compagni di partito, Romualdo Coviello: «Diceva sempre: gli faccio un culo così. E poi al momento di votare se ne va al festival di Cannes».
Fu così che il primo governo Berlusconi ebbe la fiducia: 159 voti contro 153, più due astensioni (che al Senato valgono come voto contrario). Se i quattro parlamentari mancanti fossero stati al loro posto, e avessero votato no, il governo sarebbe stato bocciato. Ma cosa era stato offerto, in cambio di quelle preziose assenze? «Lo abbiamo fatto per il Paese, non avremo poltrone» risposero in coro Cusumano, Zanoletti e Grillo. Effettivamente, nessuno dei primi due ottenne un incarico. Grillo, invece, fu premiato con una poltronissima: sottosegretario alla presidenza del Consiglio. C’è gente che passa la vita sui banchi del Parlamento, una votazione dopo l’altra, sperando di far carriera con lo stakanovismo presenzialista, e invece a lui era bastato uscire dall’aula, per dare una svolta alla sua storia politica.
Delle spese folli di Berlusconi per comprare i senatori disposti a buttare giù il secondo governo Prodi, grazie a De Gregorio sappiamo già tutto, o quasi. Ma è difficile allontanare il dubbio che anche il primo governo Prodi sia stato abbattuto con lo stesso metodo dell’«Operazione Libertà». Si votò, stavolta alla Camera, il 9 ottobre 1998. Il presidente del Consiglio ulivista era convinto in anticipo che la differenza sarebbe stata di un solo voto. A favore suo, però. Doveva mettere nel conto,
gli avevano fatto sapere gli alleati diessini, l’assenza del diniano Silvio Liotta, il quale pareva tormentato dai dubbi. Ma anche senza Liotta il governo dell’Ulivo poteva farcela. C’era solo un problema: la Pivetti, anche lei diniana, aveva partorito dodici giorni prima, e i doveri dell’allattamento la trattenevano a Milano. Prodi la chiamò al telefono la sera prima, per accertarsi che venisse. Sembrava fatta. Quello che Prodi non sapeva è che in quelle stesse ore anche Berlusconi stava chiamando tutti gli avversari tentennanti. Compresa la Pivetti. Compreso Liotta. Lo confessò lui stesso, subito dopo il voto decisivo, senza però rivelare quali argomenti avesse usato. «Ho chiamato Liotta e anche altri. Ma non ho fatto avances. Ho detto che le porte di Forza Italia per loro sono aperte».
Il risultato fu che l’indomani le cose non andarono come Prodi aveva previsto. La Pivetti, che sarebbe dovuta arrivare con l’aereo militare, non arrivò mai. Spuntò invece, lasciando tutti a bocca aperta, Liotta. E disse subito in aula: «Non voterò la fiducia”. Berlusconi sorrise. Prodi impallidì, realizzando in quell’istante quale sarebbe stato il risultato finale: 312 sì, 313 no, il suo governo non c’era più. Cosa era stato promesso, a Liotta? Nulla, giurò lui. «Nessuno mi ha promesso nulla, non ho chiesto nulla e non ho avuto nulla». Fatta eccezione, si capisce, per la rielezione al Senato nel collegio di Partinico sotto il simbolo della Casa delle Libertà.
Un seggio in Parlamento. Dodicimila euro al mese. Più i viaggi gratis. Più i rimborsi. Più il portaborse. Può essere una buona ragione per cambiare opinione? Chissà. E’ lo stesso premio che alle elezioni di febbraio Domenico Scilipoti e Antonio Razzi hanno chiesto e ottenuto alla luce del sole da Berlusconi, dopo avergli salvato il governo alla fine del 2010. Ricordate? Fini aveva messo in calendario il 14 dicembre le mozioni di sfiducia. Senza i voti dei finiani, il Cavaliere non poteva più farcela. Le cifre parlavano chiaro.
Eppure lui ostentava un inspiegabile ottimismo. «Avremo la fiducia » dichiarò il 6 dicembre alla radio. «Escludo che Berlusconi ottenga la fiducia» gli rispose subito Fini, dopo aver controllato un’ultima volta i numeri. Non poteva farcela, il governo. Eppure ce la fece. Alla vigilia del voto, tre deputati dell’opposizione uscirono allo scoperto e passarono dalla sua parte. Il primo era proprio Scilipoti, eletto con l’Idv. Il secondo era Antonio Razzi, anche lui – come Scilipoti, e come De Gregorio – eletto grazie a Di Pietro. Il terzo invece veniva dal Pd, ed era stato addirittura il capolista nel Veneto: Massimo Calearo, ex presidente degli industriali vicentini. E Berlusconi scampò alla sfiducia proprio per tre voti, 314 contro 311.
Anche allora, come era successo dopo il salto di De Gregorio, in Parlamento si sparse l’odore dei soldi. Di Pietro denunciò i due traditori alla Procura della Repubblica. «Io non ho preso neppure un centesimo, solo un abbraccio e l’amicizia del presidente Berlusconi » ha garantito Razzi. E Scilipoti è stato ancora più categorico: «Se qualcuno ha documenti che dimostrano che ho preso soldi da Berlusconi, li consegni alla magistratura. Chi si vende venga arrestato e si butti via la chiave».
Certo, solo loro (e Berlusconi) conoscono la verità. Ma resta agli atti la motivazione con cui Scilipoti abbandonò al loro destino il manipolo di voltagabbana che proprio lui aveva trasformato in gruppo parlamentare: “I responsabili”. «Sono solo un’accozzaglia di persone – dichiarò al “Fatto” – che hanno pensato solo ai loro interessi. Si vergognavano di chiamarsi Responsabili però poi andavano da Berlusconi a fare ricatti». Che gente.
La Repubblica 09.03.13
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