Nessun Paese (ancora) ha eliminato del tutto le discriminazioni di genere, ma le nazioni scandinave hanno colmato l’80% del gap, la «distanza» di trattamento e opportunità tra donne e uomini. E quasi ovunque le disparità nell’accesso alla salute e all’educazione si sono ridotte (tra le eccezioni Yemen, Benin e Chad). È quanto emerge dal Global Gender Gap Report 2012, l’ultimo rapporto del World Economic Forum sulla condizione delle donne in 135 Paesi del mondo.
Al centro dello studio ci sono le differenze di possibilità tra uomini e donne, non il livello di sviluppo raggiunto, e non mancano le sorprese: la Mongolia, per esempio, è al primo posto nella classifica per la partecipazione all’economia, che misura occupazione, livelli salariali a seconda del genere, carriera. Le Filippine sono all’ottavo posto globale, mentre la Francia è solo 62esima, anche se fa parte dei venti Paesi che non discriminano le donne nell’accesso all’istruzione. Il luogo migliore per nascere con due cromosomi X, in ogni caso, rimane l’Europa del Nord: Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia occupano i primi posti in tutte le aree analizzate. E offrono le migliori politiche di sostegno alle madri. Questo se si misurano i numeri a livello globale.
La fondazione TrustLaw, invece, ha affidato la valutazione a 370 esperti di questioni di genere, che hanno analizzato la condizione delle donne nei Paesi più ricchi del mondo, quelli del G20. Il migliore è risultato il Canada, grazie alle ottime politiche contro violenza e sfruttamento, unite ai livelli di istruzione e all’assistenza sanitaria. Seconda la Germania, patria della donna più potente del mondo: Angela Merkel. Ultima l’India, dove molte bambine vengono uccise alla nascita, quasi la metà delle nuove spose sono minori, il lavoro domestico è spesso una schiavitù.
L’Italia lascia a desiderare comunque: 101 su 135 Paesi nel Gender Gap Report, ottava tra quelli del G20. Pesano la poca presenza in politica, le troppe donne che non lavorano, le differenze salariali, la scarsità di manager e dirigenti. Una perdita di opportunità economiche anche per gli uomini: il World Economic Forum ricorda che dove le donne sono meno discriminate ci sono anche la maggiore competitività e i redditi più alti.
Elena Tebano
Francia, tra i banchi le ragazze mettono i ragazzi in minoranza
Nell’educazione non c’è parità tra i sessi in Francia, ma nel senso contrario al solito: sono gli uomini a essere sotto-rappresentati. L’indice del World Economic Forum è pari a 1,28: significa che una ragazza accede agli studi universitari più spesso rispetto a un ragazzo. Le studentesse in facoltà sono oltre il 60 per cento del totale, rispetto al 40% dell’inizio degli Anni Sessanta. Il progresso è evidente e fa della Francia l’unico grande Paese europeo ad arrivare in testa alla classifica per questa voce (ex aequo con Olanda, Danimarca, Finlandia, Lettonia e Slovacchia). La battaglia dell’uguaglianza però non è finita, perché resta una disparità sospetta quanto al tipo di educazione prescelta: le ragazze rappresentano il 70% degli iscritti alle facoltà umanistiche e meno del 30% in quelle scientifiche.
Una differenziazione che comincia già al liceo e non perché le donne siano meno brave in matematica: secondo i dati del ministero dell’Educazione, già a partire dalle elementari le femmine ottengono risultati migliori dei maschi in tutte le materie, vengono bocciate di meno e arrivate al Bac (più o meno la Maturità francese) hanno voti più alti. Però, se prendiamo 10 allieve e 10 allievi con ottimi risultati in matematica, solo 6 ragazze scelgono un percorso scientifico, contro 8 ragazzi. «La persistenza di scelte legate al sesso è un’anticipazione dei ruoli da adulti, in funzione di rappresentazioni stereotipate», si legge in una nota del ministero. Ed è così che, quanto al ruolo delle donne nell’economia, il posto in classifica della Francia crolla dal primo al 62°: molte laureate in lettere, ancora poche dirigenti d’azienda.
Stefano Montefiori
Mongolia, parità di opportunità e ruoli sul lavoro
Tra le molte virtù della Mongolia, c’è che scantona dalle ovvietà. Stretta fra Russia e Cina, guarda all’Europa, per spezzare un assedio che vive con disagio. Si è desovietizzata in modo incruento (a parte qualche fiammata, ma nulla rispetto all’Asia centrale o ai Balcani) e ora è una democrazia, per quanto con i suoi problemi di trasparenza. Il World Economic Forum le riconosce un primato: il primo Paese al mondo per parità di partecipazione e opportunità economiche. Ci sono anche un 6° posto per le cariche pubbliche e un 7° per l’alfabetizzazione, benché la capacità delle donne di incidere sui processi decisionali non sia necessariamente elevata. Popolazione esigua, 3 milioni, e dunque la necessità di valorizzare al massimo i talenti. E si tratta di una società tradizionalmente nomade, inurbata in corsa, dove le spaventose ricchezze del sottosuolo (carbone, rame, giusto per cominciare un elenco infinito) aprono un cuneo tra i più ricchi, capaci di stravaganze da oligarchi moscoviti o maggiorenti cinesi, e i più poveri.
Ma il ruolo delle donne nei clan familiari resta fondamentale, la solidità e l’ingegnosa determinazione delle mongole sono risorse non solo per l’economia locale ma anche per le imprese straniereche battono avide Ulaanbaatar. Negli anni Novanta s’impose all’estero la generosa ferocia con la quale Erenjav Shurentsetseg, moglie di un ex premier, raccoglieva fondi per strappare alla fame i ragazzini nascosti nel sottosuolo della capitale. E basta trascorrere una mattinata in teatro con Bold Sergelen, volitiva direttrice dell’Opera nazionale, per accorgersi che qualche volta le statistiche hanno un’anima.
Marco Del Corona
Germania, sta decollando la partecipazione delle donne in politica
Le cifre non sono da record. La presenza femminile in Parlamento, per esempio, è del 32 per cento. Ma nel corso degli ultimi anni, grazie anche all’effetto Merkel, il ruolo delle donne nella politica e nelle istituzioni tedesche è cresciuto sempre di più. La Germania è un Paese dove, almeno in questo campo, l’uguaglianza è la regola. Diverso è il discorso per i vertici delle aziende (2,2 per cento), mentre molti sono ancora i problemi per chi deve conciliare la vita familiare e il lavoro nelle fasce meno privilegiate della società. È una questione anche di visibilità.
Nel governo Merkel, cinque dei quindici ministri sono donne che occupano posti chiave nell’amministrazione del Paese. È il caso soprattutto dei dicasteri della Giustizia, del Lavoro, dell’Istruzione. In aumento è anche la presenza femminile alla guida dei Länder. Le governatrici sono quattro su sedici e una di queste, la socialdemocratica Hannelore Kraft, è ritenuta da tutti una candidata con molte carte in regola per arrivare in futuro ancora più in alto. Anche in cancelleria. E alcune di loro hanno una storia personale di grande impegno e coraggio, come per esempio Malu Dreyer, ministra-presidente della Renania-Palatinato, malata di sclerosi multipla e costretta spesso a muoversi su una sedia a rotelle.
Un capitolo importante nell’ascesa delle donne tedesche in politica è determinato dalla scelta dei partiti di creare delle leadership «doppie». I Verdi hanno due copresidenti, Claudia Roth e Cem Özdemir (un ticket maschio-femmina è stato eletto per guidare il partito anche alle elezioni politiche del 22 settembre), e lo stesso avviene nella Linke. Marina Weisband, anima e cervello del Partito dei Pirati, si è invece dimessa per avere più tempo da dedicare a se stessa. Ma tutti invocano il suo ritorno.
Paolo Lepri
Scandinavia, essere madri e lavorare si può
Diventare mamme al Nord è meglio. Più facile, più sicuro e, difatti, più frequente. Le islandesi hanno in media più di due figli a testa, tallonate da francesi, danesi, svedesi e finlandesi con una media di 2 o almeno 1,9 figli ciascuna, in controtendenza con la Germania e l’Italia (1,4) e con l’Europa meridionale: 1 figlio e mezzo in media per ogni spagnola o per greca, e 1,3 per portoghese. Gli analisti non devono cercare lontano: le politiche sociali per le mamme lavoratrici segnano spesso il divario tra una gravidanza serena e una ansiosa alle diverse latitudini. E soprattutto incidono sui tassi di fertilità le leggi che proteggono le donne di fronte al datore di lavoro, al momento di allargare la famiglia senza restringere (o perdere) lo stipendio. Quindi è una questione di assistenza sanitaria, ma anche e soprattutto sindacale.
La Grecia si mantiene pure quest’anno in cima alla classifica per le garanzie offerte all’ingresso in sala parto: le probabilità di morire dando alla luce un figlio sono appena 3 su centomila. Ma a fare la differenza è il trattamento che lo Stato riserva alle puerpere al ritorno a casa. Imbattibili la Norvegia e la Svezia, che assicurano, rispettivamente, ai loro neonati da un massimo di 100 a un minimo di 68 settimane da trascorrere con i neo genitori per cominciare ad ambientarsi alla nuova vita in famiglia, oltre a pause (materne) senza limiti nel periodo dell’allattamento. Le 68 settimane svedesi sono divisibili fra padre e madre, a seconda dei rispettivi impegni di lavoro, e i primi 390 giorni sono pagati — in entrambi i casi — all’80 per cento del salario di chi sta casa; ma per legge ognuno dei due genitori ha il diritto (e il dovere) di passare almeno 60 giorni con il bebè. Un privilegio che può soltanto sognare una mamma in carriera newyorkese, o in un altro stato degli Usa, dove il congedo retribuito non esiste.
Elisabetta Rosaspina