L’8 marzo non è una festa, e mai come quest anno questa considerazione viene ripetuta nei blog e sui social network. Non è una festa, perché come sappiamo, c’è ben poco da festeggiare in un Paese dove la crisi economica fa aumentare a livelli allarmanti l’esercito di precarie, povere e disoccupate; non è una festa perché le donne continuano ad essere uccise al ritmo di una ogni due giorni.
Il voto di febbraio è uno spartiacque che sconvolge la geografia politica, che può avere effetti pericolosi sulla stabilità del Paese che affronta una crisi difficilissima. Esprime una critica radicale verso i partiti incapaci di dare le risposte che servono e verso le forme tradizionali della democrazia. Ci interroga tutti, noi per prime che abbiamo proposto il terreno della democrazia paritaria come risposta alla crisi democratica e della rappresentanza. È un voto che ci parla dell’Europae delle politiche di austerità e rigore rispetto alle quali paghiamo il prezzo dell’assenza di veri partiti continentali, di una politica che sappia uscire dalle pura dimensione nazionale. Il voto ci parla delle fratture storiche che attraversano il Paese e dei divari che la crisi aggrava: tra nord e sud, tra città e campagna, tra vecchi e giovani.
Possiamo dire di aver visto con chiarezza e per tempo l’incedere di una crisi che si sta rivelando la peggiore del secolo, di aver messo a tema la questione del rapporto tra cittadini ed istituzioni (le primarie sono state un esercizio democratico), di aver indicato l’intreccio tra questione economica sociale, democratica. Ma dobbiamo dirci che rispetto alla crisi strutturale, un vero e proprio movimento tellurico che rimette in discussione il nostro modo di vivere e lavorare, e dove i mercati finanziari mettono sotto scacco le istituzioni democratiche, la nostra proposta non è stata sufficiente, non è stata percepita come una proposta adeguata di cambiamento. Dobbiamo indagare meglio il voto.
Alcune scelte di fondo, però ci hanno però consentito di conquistare una credibilità soggettiva rispetto alla radicalità delle questioni che si agitavano nel Paese, e la scelta di campo della democrazia paritaria non può non segnare in maniera irreversibile il profilo e la proposta politica della sinistra e del Partito democratico.
Per la prima volta nella storia del Paese la presenza femminile in Parlamento arriva al 30 per cento, soprattutto grazi al Partito democratico che porta 155 tra deputate e senatrici, il 40% circa dei gruppi. Non abbiamo mai pensato, quando abbiamo lavorato sui regolamenti che hanno reso possibile questo obiettivo (a partire dalla doppia preferenza nelle primarie) che si trattasse di un semplice fatto formale, ma al contrario di qualità della rappresentanza e di sostanza della proposta.
Tante donne si sono affermate nelle primarie perché nell’opinione pubblica le donne sono state percepite come forza di cambiamento. Questa presenza di tante elette è il cuore del cambiamento che vogliamo vedere nel Paese e rafforza il nostro profilo di alternativa ad una destra che ha calpestato la dignità delle donne, che ci ha colpite nelle condizioni di vita e nei diritti e che porta la responsabilità delle politiche che hanno provocato la crisi.
La nostra sfida è ora sul terreno del cambiamento e della responsabilità, con proposte concrete, a partire dagli 8 punti approvati in Direzione e che riguardano il lavoro, il welfare, l’investimento in politiche pubbliche rinnovate. Chiediamo subito una legge contro il femminicidio e di approvare la ratifica della Convenzione di Istanbul. Il senso della nostra iniziativa è che la crisi si contrasta con un nuovo «new deal», anche per le donne. Il recente discorso di Obama sullo stato dell’Unione può rappresentare un punto di riferimento per i progressisti. Dunque l’8 marzo non è una festa, ma un’occasione di mobilitazione intorno ai grandi problemi del Paese.
L’Unità 08.03.13