Sindaco Fassino è soddisfatto? «Sì. Questa sentenza ristabilisce la verità e conferma che intorno a un’espressione ironica è stata imbastita una campagna denigratoria su di me e sui Democratici di Sinistra. È inoltre una conferma di quanto negli anni la politica sia stata inquinata da comportamenti illeciti. Mi riferisco alla strumentalizzazione di esodi analoghi, come gli scandali in- ventati di Telekom Serbia e della commissione Mitrokhin, o come molto più recentemente il caso del senatore De Gregorio e le sue dichia- razioni sulla compravendita di parlamentari per far cadere l’ultimo governo Prodi. È un modo di concepire la politica e l’azione politica privo di principi di legalità e finalizzato esclusivamente ad abbattere l’avversario. Pensi al caso Nixon, in altri Paesi per episodi simili cadono governi e presidenti. In Italia ci sono voluti otto anni per dimostrare l’uso illegittimo di quella intercettazione. E voglio ricordare che le mie parole non furono solo strumentalizzate ma anche manipolate. Dopo l’espressione ironica “abbiamo una banca”, io precisavo: “Scherzo, la banca è vostra”. Parole cancellate e mai pubblicate».
Quell’intercettazione pesò sulle elezioni del 2006?
«È difficile fare un ragionamento di questo tipo. Certamente vi fu una manipolazione delle regole democratiche e parte dell’elettorato può essere stato influenzato».
Oggi che peso politico ha questa nuova condanna di Berlusconi, dopo quella di qualche mese per frode fiscale? «Non voglio legare le due cose, ogni processo ha una storia a sé. Mi sem- bra più grave quello che sta emer- gendo con la vicenda denunciata da De Gregorio, che ha ammesso di essere stato assoldato per destabilizzare l’equilibrio politico di quegli anni. È la dimostrazione che c’è qualcuno disposto a violare la legge e il rispetto dell’avversario pur di farlo cadere, cancellando inoltre i pronunciamenti elettorali. È stato inflitto un colpo ai cittadini, alle loro opinioni e alla legittimità democratica». Tornando agli anni della scalata Unipol-Bnl, ha qualche rammarico per come si è comportato da segretario dei Ds?
«Perché dovrei: basta scorrere le pagine economiche dei giornali dell’epoca per rendersi conto che quello era il periodo in cui tutti gli analisti sostenevano il tema del superamento della frammentazione del sistema bancario. Si contavano ottocento istituti di credito, in molti sottolineavano la necessità di integrali per essere più competitivi sul piano internazionale. Bisognava costruire dei campioni nazionali capaci di far fronte alla concorrenza. Infatti sono di quegli anni le operazioni che hanno portato alla nascita di Unicredit, di Intesa San Paolo e di altri grossi gruppi. In questo quadro, l’operazione Unipol-Bnl era legittima e stava completamente dentro gli obiettivi del tempo. Non era strano che Unipol, uno dei primi gruppi assicurativi, pensasse di integrarsi con una banca, anzi. Poi non entro nel merito delle azioni messe in atto per perseguire quella strategia, ma l’idea era giusta. Del resto, sfido chiunque oggi a dire che Intesa San Paolo o Unicredit debbano essere spacchet- tate e tornare come prima o che quelle aggregazioni bancarie non andavano fatte. È per questo che la strumentazione delle mie parole era ancora più grave: io esprimevo condivisione per un’operazione che ritenevo a beneficio del Paese. Cosa c’era di scandaloso nel fatto che il segretario del primo partito si interessasse di quell’operazione?» Vicenda chiusa?
«Mi auguro di sì. In questi anni ho sofferto molto perché questa ingiustizia offendeva me e il mio partito. Sono in politica da molti anni, per passione e non per convenienza, e mai un’ombra si è posata sul mio comportamento. Questa era costruita, come Telekom Serbia, e ora è spazzata via».
Berlusconi invece si dice perseguitato dai magistrati.
«Mi sembra che siano dei magistrati quelli che l’hanno appena prosciolto dalle accuse del procedimento Mediatrade. Il fatto che nel giro di quarantotto ore ci siano state una sentenza di condanna e una di assoluzione, dimostra che non c’è pregiudizio».
Possiamo dire però che questa condanna è un motivo in più per non allearsi al Pdl nella formazione di un nuovo governo?
«Al di là delle vicende giudiziarie, le ragioni per cui non dobbiamo allear- ci al Pdl sono prima di tutto politiche e programmatiche. È per quello che Berlusconi dice sull’Europa, sul sistema fiscale o sulla giustizia, che non ci sono le condizioni per formare insieme il prossimo governo con il suo partito».
Le ha dato fastidio l’ironia che si è scatenata in rete sulle parole che aveva detto qualche anno fa in merito a Grillo e a un suo possibile partito? «L’ironia è uno dei rischi ai quali è esposto un politico. Non mi sono offeso, del resto quelle parole le dicevo nel 2009, quando Grillo sosteneva che il Partito democratico era inutile e allo stesso tempo voleva partecipare alle primarie per diventarne il segretario. Io dissi semplicemente che le due cose non mi sembravano compatibili. E poi, se dovessi fare io la rassegna di tutte le cose dette da lui dal 2009 ad oggi, sa l’ironia…».
L’Unità 08.03.12
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La storia del «nastro di Natale» per confezionare i veleni
Aveva cercato un alibi nel turbo-sonnellino, l’assopimento che gli capita di avere in ogni occasione anche istituzionale come nelle aule parlamentari o dei tribunali, figuriamoci alla vigilia di Natale sotto un albero bianco e accanto a un camino acceso. «L’intercettazione di Fassino? Ma quando mai! Dormivo, ero stanco, non mi sono accorto di nulla». Non s’era accorto – raccontò Silvio Berlusconi – né di Paolo, il fratello, né di quegli altri due signori, Roberto Raffaelli e Fabrizio Favata, che si erano presentati ad Arcore il pomeriggio della vigilia di Natale 2005. Per fargli gli auguri, certo. Ma soprattutto per consegnargli un regalo molto speciale: un’intercettazione telefonica senza alcun valore per i magistrati che indagavano sulle scalate bancarie ma di grande impatto politico per- ché faceva sentire «il comunista Fassino» appassionarsi alla scalata Bnl e commentarla con l’amico Giovanni Consorte di Unipol.
I giudici non hanno creduto al sonnellino. Ieri hanno condannato Silvio Berlusconi a un anno perché convinti che l’allora premier fosse non solo ben sveglio ma anche consapevole del valore mediatico-politico che quell’intercettazione avrebbe avuto una volta data in pasto ai giornali. Il quotidiano di famiglia, il Giornale, avviò infatti le pubblicazioni il 27 dicembre 2005, segnando profondamente la campagna elettorale per le politiche dell’aprile 2006 con l’ombra della questione morale sul partito che fu di Berlinguer.
La sentenza su quello che l’Unità chiamò «il nastro di Natale» (l’inchie- sta giornalistica fu pubblicata in esclusiva nel dicembre 2009) fissa una clamorosa nemesi storica: Berlusconi, che ha tuttora come obiettivo primario lo stop alle intercettazioni sia come strumento investigativo sia come diritto di cronaca, viene condannato per averle usate per colpire l’avversario politico. Chi è causa del proprio mal… gli adagi si sprecano. Ma più di tutto questa sentenza e l’inchiesta giornalistica che c’è dietro verranno ricordate come la prima spia dell’esistenza di quel mondo di minacce e ricatti mediatici che abbiamo imparato essere il mondo di B.
Fabrizio Favata si presentò all’Unità ai primi di settembre 2009. Gentile, indossava il più classico dei gessati neri e aveva con sé la più classiche delle valigette nere. Si presentò come imprenditore dalle «incerte fortune», sposato, con figli e qualche acciacco di salute. Soprattutto in grave crisi economica. Buttò l’occhio sulla valigetta e ci disse: «Ma ora, dopo anni che lo prendo in quel posto, so come rivalermi di tanti sfruttatori e ingiustizie. Ha presente lo scandalo Watergate? Bene, quello che c’è lì dentro la valigetta gli assomiglia molto».
Favata ci raccontò una storia tanto credibile quanto il suo opposto. Per- ché a settembre 2009 c’erano già stati Patrizia D’Addario, lo scandalo Noemi Letizia e «il drago e le vergini» raccontati da Veronica Lario. Ma non c’erano ancora i Tarantini, i Lavitola, i De Gregorio e le Olgettine, quella tribù di faccendieri, sfruttatori e gente senza scrupoli che hanno abitato la sfera pubblica e privata del Cavaliere. Si parlava molto invece, in quei giorni, di intercettazioni a cui il Pdl voleva a tutti i costi mettere uno stop. «Pensi un po’ – ci disse Favata – che Berlusconi è stato il primo ad utilizzare in modo illecito le intercettazioni. Lui che le vorrebbe eliminare…».
Con l’imprenditore ci furono vari incontri. Si faceva vivo nei tempi e nei modi da lui stabiliti. La storia è quella che poi è stata raccontata nel processo milanese. I principali protagonisti sono Favata; Paolo Berlusconi, che di Favata è amico e socio dal 2005 in alcune società poi fallite; Roberto Raffaelli, amministratore delegato di Rcs, la società che ha vinto in procura a Milano l’appalto per la fonoregistrazione e quindi ha «accesso a tutte le intercettazioni di quella procura».
Gli antefatti sono questi: Raffaelli è interessato ad avviare una società di intercettazioni in Romania; i tre «amici» più un quarto, il commercialista Eugenio Petessi, decidono di rivolgersi al premier in carica, Silvio Berlusconi, per individuare i canali giusti e ottenere quanto vogliono in Romania. In cambio dell’aiuto offrono una merce preziosa: alcune intercettazioni scottanti che «sicuramente avrebbero fatto felice il Cavaliere».
Quella tra Fassino e Consorte ma anche altre con Briatore, Ricucci e l’avvocato Corso Bovio (poi scomparso, suicida).
Gli incontri tra Favata e l’Unità vanno avanti per due, tre mesi. Ogni volta ci offre una prova in più sulla veridicità di quello che dice: le foto con Ber lusconi a feste e matrimoni; i dettagli di come creare il nero per le tangenti; le prove degli incontri a Palazzo Chigi; le registrazioni rubate di alcuni incontri con gli avvocati di Silvio Berlusconi a cui Favata va a chiedere soldi ma sempre senza successo. Perché il succo di tutta la storia è che se in un primo tempo, nel dicembre 2005, Favata non vuole nulla in cambio dalla famiglia Berlusconi (la quale si dice «eternamente grata e pronta in ogni momento a sdebitarsi»), nel 2007, quando gli affari cominciano ad andare male, Favata chiede, anzi pretende ricompense. Direttamente o indirettamente. Per un po’ Raffaelli gli dà qualcosa (300 mila euro: per questi episodi Favata è stato arrestato per estorsione) poi chiude i rubinetti.
A quel punto si rivolge a l’Unità. Ci prova anche con il settimanale L’Espresso ma a suo avviso il nostro giornale può essere più interessato. La direzione del giornale prende tempo, i dettagli sono tanti, ma la prova regina, la smoking gun, il benedetto file audio con Fassino e Consorte, Favata dice prima di averlo nella valigetta, poi in una cassaforte segreta («capite bene che è la mia assicurazione sulla vita»), la volta successiva a casa. Ma noi non lo vedremo né sentiremo mai.
Il 9 dicembre 2009 l’Unità decide di pubblicare quel che sa. Subito dopo veniamo convocati uno ad uno dalla polizia giudiziaria. Come persone informate sui fatti.
Ormai l’inchiesta cammina sulle sue gambe. Favata sparisce. Fino ai primi di febbraio quando torna a trovarci in redazione. Altri dettagli, altre richieste, ma del file audio nessuna traccia. Quando lascia la redazione trova la polizia sotto il palazzo che lo ferma per una perquisizione. Nelle stesse ore perquisiscono anche la redazione. Gli investigatori cercano il file. Noi non lo abbiamo. Favata neppure. Il resto è la cronaca del processo. Fino al verdetto di ieri.
L’Unità 08.03.13