L’ultimo bollettino di Caporetto per la scuola italiana è costituito dal rapporto sui livelli di apprendimento nella matematica pubblicato dall’Associazione Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement). Ancora una volta, la comparazione dei risultati ci vede relegati in una posizione tutt’altro che esaltante. E, ancora una volta, i commenti non sono andati oltre le consuete lamentazioni che, in un modo o nell’altro, tendono a far passare in secondo piano le ragioni degli insuccessi che, una rilevazione dopo l’altra, si continuano ad accumulare. Anche in questo caso, si sono sentiti i soliti richiami alla necessità di migliorare la formazione professionale degli insegnanti e di individuare soluzioni più efficaci per la didattica. Mi sembra di aver sentito affermazioni analoghe già una quarantina d’anni fa, quando incominciavano a diffondersi i dati delle rilevazioni comparative tra i sistemi scolastici.
In questi decenni, i risultati italiani hanno continuato a peggiorare, ma i buoni propositi di volta in volta enunciati sono rimasti tali. La formazione professionale degli insegnanti costituisce ancora un nodo irrisolto, così come non ci sono stati progressi di qualche rilievo nell’organizzazione della ricerca didattica. Il fatto è che, in ogni caso, interventi nelle due direzioni indicate, che pure sarebbero auspicabili, non basterebbero a rovesciare la dinamica negativa che sia l’Associazione Iea, sia l’altra grande centrale della ricerca comparativa, l’Ocse, non cessano di segnalare. Le indagini comparative non servono, infatti, a stilare una graduatoria dal migliore al peggiore, ma a rendere evidenti i contesti che si associano a livelli di rendimento più o meno soddisfacenti.
Per quel che riguarda l’apprendimento della matematica, si dovrebbe incominciare con l’osservare che la crisi non riguarda solo l’Italia, anche se nel nostro Paese ha assunto dimensioni particolarmente preoccupanti. Si direbbe che un settore della conoscenza cui si deve molto dello sviluppo del pensiero europeo e del progresso scientifico e tecnologico abbia esaurito la sua spinta propulsiva, almeno a livello della cultura diffusa. Gli stili di vita prevalenti nei Paesi industrializzati riducono progressivamente l’uso delle competenze di base nelle pratiche quotidiane. Si legge e si scrive di meno, e c’è sempre minor bisogno di calcolare.
Se in Italia la situazione si presenta più grave che altrove, occorre ricercare quali siano gli aspetti non solo dell’educazione formale (quella scolastica), ma anche di quella informale (mi riferisco all’educazione che implicitamente si acquisisce nei contesti di esperienza) che concorrono a determinare atteggiamenti negativi nei confronti dell’apprendimento della matematica. La mia opinione, per quanto possa sembrare paradossale, è che il livello deludente dei risultati che si riferiscono alla matematica debba essere riferito non tanto alle difficoltà specifiche che presenta tale area della conoscenza, quanto ad una progressiva caduta della cultura diffusa nella popolazione, a cominciare dalla qualità delle competenze verbali. Credo che chiunque abbia qualche consuetudi ne con i comportamenti dei bambini e dei ragazzi (ma il fenomeno si va rapidamente estendendo alle età successive) non possa non aver notato una progressiva attenuazione della capacità di argomentare in modo proprio, corretto dal punto di vista grammaticale e adeguato da quello sintattico, di un registro appropriato agli argomenti sui quali ci si sta soffermando. L’uso sociale della lingua non contribuisce a sostenere il compito di apprendimento: i mezzi di comunicazione, e soprattutto la televisione, diffondono messaggi sempre più poveri di pensiero, il cui intento non è quello di stimolare la comprensione, ma di attrarre l’affettività. La volgarità dell’espressione verbale è stata, come si usa dire «sdoganata»: in altre parole, si ricorre a espressioni allusive e spesso scurrili per sollecitare una adesione istintiva, che non comporta una riflessione specifica. I bambini e i ragazzi sono immersi in un universo comunicativo rispetto al quale i messaggi dell’apprendimento formale appaiono lontanissimi ed estranei.
È del tutto improbabile che il quadro negativo che le rilevazioni internazionali pongono in evidenza possa essere modificato solo con rettifiche nel modo di operare delle scuole. Occorre, invece, definire un programma educativo di ampio respiro, che tenda a conferire una nuova qualificazione alla cultura della popolazione e ridefinisca il ruolo della scuola nello sviluppo di bambini e ragazzi. Per cominciare, c’è bisogno di definire una politica che valorizzi il patrimonio immateriale e le testimonianze storiche della tradizione italiana ed europea, e che sia aperta, in chiave di incremento e non di riduzione, agli apporti di altre culture. Essenziale in questa prospettiva è un forte incremento della presenza della scuola nell’organizzazione della vita di bambini e ragazzi: si tenga conto che i risultati migliori sono quelli che si ottengono nei sistemi scolastici che operano su tempi distesi e impegnano una parte più consistente del tempo degli allievi.
L’importanza di qualificare la cultura diffusa è più evidente se ci si riferisce all’apprendimento della matematica, ma non è inferiore se prendiamo in considerazione altri campi della conoscenza: la povertà del linguaggio parlato, e peggio che mai di quello scritto, costituisce un segnale predittivo dei risultati scadenti che si conseguono nella scuola.
Sarebbe utile orientare il maggior impegno nella valutazione istituzionale del sistema educativo all’analisi dei problemi posti in evidenza dagli insuccessi nelle rilevazioni comparative. Continuare a prendere atto delle differenze fra le aree geografiche o fra città e campagna è utile solo se si persegue l’intento di assicurare l’equità delle opportunità educative.
L’Unità 07.03.13
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