La Germania è pronta a porre un veto all’ingresso della Romania e della Bulgaria nello spazio Schengen, l’area in cui i cittadini dell’Unione (e non solo) possono circolare liberamente. «I nostri cittadini accetteranno l’allargamento solo quando le condizioni fondamentali saranno rispettate», ha tuonato il ministro degli Interni, Hans-Peter Friedrich. Inutile che la Commissione Ue abbia dato il via libera dicendo che coi parametri di accesso Bucarest e Sofia sono in regola. Berlino paventa il diffondersi della corruzione e la migrazione dei Rom. A maggior ragione ora che mancano pochi mesi alla elezioni per il rinnovo del Bundestag.
A Bruxelles è sempre più chiaro a molti che l’approssimarsi del voto in Germania sta agitando più del dovuto il processo di integrazione comunitaria. I segnali sono molteplici. Già in dicembre si è assistito all’annacquamento del rafforzamento dell’Unione monetaria, in quel caso la cancelliera Merkel ha tenuto a distanza ogni tentazione di mutualizzazione e lassismo sul fronte del debito. Era il capolinea di tre anni di prediche rigoriste che hanno avuto un evidente effetto nel peggiorare le relazioni fra Nord e Sud dell’Ue, tra corazzieri dell’austerità e amici della solidarietà, tra economie ricche e quelle in difficoltà.
Dopo il vertice europeo si è capito che sino all’autunno del giudizio per Frau Merkel, l’Europa avrebbe possibilità ridotte di avanzare a passo spedito. Ora, però, si ha come la sensazione che si stia facendo qualche passo indietro. C’è la questione di Schengen, che è di per sé potenzialmente deflagrante per il clima interno ai Ventisette. Ma c’è anche il «no» che Berlino intende opporre alla normativa per l’introduzione delle quote rosa nei consigli delle società quotate. La proposta scritta dalla commissaria Viviane Reding, in discussione al Consiglio, riserva il 40% dei board alle donne entro il 2020, mentre le aziende pubbliche dovrebbero arrivarvi già nel 2018. Berlino non ci sta.
Secondo la Süddeutsche Zeitung avrebbe dato mandato ai suoi negoziatori bruxellesi di organizzare «il rifiuto della proposta normativa», da raggiungere con la «formazione di una minoranza di blocco». Anticipando in modo improprio l’8 marzo, la cancelleria si appella al principio di sussidiarietà e afferma che non c’è motivo per decidere a livello europeo in materia. Una fonte comunitaria spiega il contrario: «Le aziende sono europee, il mercato è europeo, la decisione deve essere europea».
«È per garantirsi il voto delle imprese», ammette un osservatore. Così come la strategia rigorista e quella contro Schengen per romeni e bulgari gratta la pancia del cittadino medio e più conservatore. Non si vuole che la cosa europea disturbi la campagna elettorale. Per il Consiglio Interni in programma oggi gli sherpa hanno scritto una formula per salvare tutti e agevolare un rinvio. Quasi impossibile sperare che i cieli di Bucarest e Sofia si aprano come previsto a fine mese, e a terra cadano le frontiere da luglio. Anche olandesi e finlandesi non sono d’accordo, sebbene gli economisti ribadiscano che serve manodopera nel grande mercato. Il premier romeno, Victor Ponta, ha segnalato che non chiederà un voto su Schengen e ha invitato tutti «a toni più moderati». Forse vuole altri scontri. Magari aspetta l’esito delle urne federali. Però, dice, «persiste una barriera che ricorda quella caduta nel 1989». Il che evidenzia ancora una volta il problema.
La Stampa 07.03.13