Il salto mortale logico sta nella pretesa che “conoscere” significhi di per sé “risolvere” i problemi come se non esistessero più le differenze di opinione.Una formazione nuova, ambiziosa con intenti radicalmente innovativi si è aggiunta a una situazione già molto difficile. Ma non si può fare a meno della rappresentanza. Fino a che punto può spingersi la sfida di Grillo alla democrazia rappresentativa? Il movimento ripudia espressamente la delega, propugna la disintermediazione, vuole aumentare le dosi di quello che i politologi chiamano “direttismo”. Quest’ultimo non è una novità nelle democrazie, ma è stato finora interpretato come un ampio ricorso ai referendum, una strategia applicata sistematicamente in Italia con alterni risultati, ma il “direttismo” del M5S non consiste in questo, bensì nell’uso della Rete per costruire il movimento e il consenso. Ma in che modo si passa dal consenso alla deliberazione e alla legislazione?
Se si cerca una risposta nel video animato di Casaleggio, Gaia-The Future of Politics, sull’avvento del governo universale (dopo una sconvolgente guerra mondiale), si scopre che una risposta a questa domanda in verità c’è. Una volta che tutti saranno connessi “senza password” (finalmente), nel 2054, il fatto stesso di stare in Rete porterà a “risolvere problemi” attraverso una forma di pensiero collettivo. Si istituirà un regime di saggezza unificata. Un mondo in cui «partiti politici, ideologie e religioni spariscono». Voilà, dalla preistoria alla storia, avrebbe aggiunto il vecchio Marx. E di tali “armonie”, sappiamo, è pieno il Novecento. Ma l’ardimento teorico maggiore — sia pure in metafora — sta nel salto mortale dal “conoscere” al “risolvere”, come se non ci fossero più opzioni alternative tra le quali scegliere (e tra le quali gli esseri umani continueranno invece a dividersi). La Terra sarà sommersa da una dozzina di metri di acqua? Eppure il miliardo di sopravvissuti di sicuro litigherà sui metodi di sopravvivenza e anche sugli appalti pubblici.
Dunque per i grillini si profila un guado che non si capisce come superare e non c’è ipotesi di aumento dei voti che possa eliminare lo scoglio, a meno di immaginare la assoluta unanimità, come soltanto in questo sogno su Youtube, dove si istituisce una “conoscenza collettiva” rappresentata graficamente da un unico cervello, che sembra capace, automaticamente, grazie all’enorme quantità di informazioni, di superare “problemi complessi”. È evidente l’impasse: il M5S ha una formidabile pratica e teoria nella mobilitazione, ma è del tutto privo di una idea di come si passa da qui al processo legislativo. A meno che vogliamo prendere sul serio l’idea “organica” di un universo dotato di una specie di spiritualità vivente e autoregolantesi (il nome Gaia fa pensare indubbiamente all’attrattiva ipotesi teorica di James Lovelock, che si chiama appunto così). Se però prendessimo alla lettera l’idea dell’eliminazione dei
partiti e con essi di ogni forma di dissenso, questa non sarebbe una buona notizia, anche per liberali poco esigenti.
Non stupisce che di questi tempi ricompaia con successo nelle librerie Democrazia senza partiti di Adriano Olivetti, un protagonista dell’industria, del design e della cultura italiana de- anni Cinquanta, che fondò, tra le altre cose, la rivista e il movimento di Comunità.
Ma l’ispirazione liberale dell’imprenditore di Ivrea contrastava l’egemonia della Dc a destra e del Pci a sinistra, con un’idea di autogoverno basato su piccole comunità, e collocava al centro della vita pubblica la capacità critica della persona-cittadino.
Comunità pubblicava anche, con evidente soddisfazione, i taglienti contributi di Simone Weil, la filosofa pacifista e mistica, morta a soli 34 anni, come Appunti per la soppressione dei partiti politici, in cui la mentalità prevalente dell’epoca veniva torturata quasi sadicamente: i partiti sono «macchine di passione collettiva » che opprimono il pensiero individuale e perpetuano se stesse. Con loro trionfa la menzogna, «una lebbra che si può superare solo con la loro soppressione».
Ma quella era l’epoca d’oro del Parteienstaat, lo “stato dei partiti”, di quelle floride organizzazioni che hanno attraversato, con le loro sezioni, federazioni, scuole, direzioni centrali e segreterie, gran parte del secolo scorso. Dobbiamo riconoscere, come fa oggi la scienza politica, che il “partito organizzativo di massa”, nato nell’Ottocento con il socialismo, ha pur svolto una funzione pedagogica, di elaborazione della “domanda politica”, di integrazione nelle istituzioni, di assorbimento dei conflitti e anche che la democrazia rappresentativa finora non ne ha potuto fare a meno. Certo sono valide le ragioni di Roberto Michels, il sociologo tedesco, secondo il quale la complessità della partecipazione organizzata di tanta gente impone una tendenza inevitabilmente oligarchica alla struttura, determina la professionalizzazione dei ruoli dirigenti e finisce per consentire la manipolazione della base. E quando il peggio può accadere, accade. Arrivano i politici che vivono non “per” ma “della” politica (Max Weber). Oggi la presenza dei partiti in Italia non appare ingombrante per le stesse ragioni che lamentavano Olivetti e la Weil: sono diventati più piccoli e più deboli, non hanno la più potenza ideologica con cui elaboravano linguaggi e visioni del mondo, sono diventati “partiti personali”, aggregati cangianti, dai nomi incerti. La loro patologia non produce oppressione ideale, ma altro: una tendenza invasiva della società, lottizzazione, finanziamento pubblico smisurato, corruzione. Sono gli argomenti dei grillini.
«Nessuna fiducia a un governo dei partiti» sostiene il M5S. Nella stessa riunione però un deputato del gruppo dice: «Demoliamo il nostro ego per metterlo al servizio del movimento». E che altro è questo se non disciplina di partito? Quella battuta sarebbe piaciuta a un bolscevico. E Simone Weil ci avrebbe visto tracce della “lebbra” di cui sopra. Anche qui c’è aria di una contraddizione in via di esplosione.
Per stare ai fatti, un partito ambizioso, e con intenti radicalmente innovativi, si è aggiunto al difficile concerto politico italiano. E giacché di rappresentanza e di partiti non si può fare a meno, per far funzionare la democrazia parlamentare nella sua pienezza costituzionale e deliberativa, bisognerà allentare le maglie della “legge” di Michels, e scommettere sul miglioramento di quelli vecchi, e sulla maturazione di quelli nuovi.
La Repubblica 07.03.13