E’ una crisi politica difficile, forse la più difficile dal dopoguerra. Perché sullo sfondo c’è una sofferenza sociale diffusa, c’è incertezza sul destino dell’Europa e dunque sulla tenuta del nostro Paese, c’è una domanda di cambiamento a cui le istituzioni da anni non riescono a rispondere. Camminiamo su un crinale pericoloso, ma quella domanda di cambiamento è emersa con forza e ad essa occorre rispondere come finora non è stato fatto.
C’è il rischio, drammatico, di cadere nella spirale dell’impoverimento, dell’impotenza politica, della rottura nazionale. Ma c’è anche l’opportunità di risalire la china, di ritrovare una speranza condivisa, pur in un quadro nel quale oggi sembra prevalere solo l’instabilità. Per il Pd è la prova della verità. Si è discusso per anni di partito liquido e solido, si è discusso della difficile amalgama tra idee socialiste e cultura cattolica, si è discusso del potere degli iscritti e di quello degli elettori. Ma è adesso che il Pd deve dimostrare di essere un partito. E lo deve dimostrare al Paese prima ancora che ai suoi militanti. È dalla fondazione che il Pd discute animatamente delle sue forme e dei caratteri della necessaria innovazione, tuttavia è sopravvissuto a sconfitte pesanti e anche ripetute, a dimostrazione che le sue radici politico-culturali erano profonde nella storia nazionale e nelle aspettative di ceti sociali che chiedono equità, Europa e cambiamento. In tutta evidenza, non erano quelle diversità sufficienti a inibire l’identità o la speranza «democratica».
Ora invece la crisi politica seguita al risultato elettorale può cambiare lo scenario e rendere più drammatico il bivio di fronte al Pd. Le elezioni non hanno dato al centrosinistra la maggioranza sperata, ma resta in capo al Pd la responsabilità di una proposta per l’Italia. È logico, naturale, inevitabile che i toni del confronto interno si facciano più forti, che le posizioni in campo vengano presentate con tutto il carico che oggettivamente hanno: si sceglie la strada che dovrà imboccare il Paese, non quella che riguarda un partito. In ballo ci sono le nostre istituzioni, il futuro nostro e dei nostri figli. Ma un punto non può sfuggire ai dirigenti del Pd: se vorranno dire qualcosa di utile al Paese, dovranno prima discutere senza delegittimarsi, poi decidere come un corpo unitario e attuare queste decisioni con coerenza. Senza questa dimensione unitaria, il Pd non rischia solo una frattura. Rischia di essere afono, di non essere utile all’Italia, di diventare oggetto di scorribande altrui, di farsi sfogliare da altri la margherita dei candidati, insomma di tradire il mandato che milioni di elettori gli hanno conferito.
Disse Aldo Moro nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Dc – era il ’78, la vigilia del suo rapimento e dell’ingresso del Pci nella maggioranza, in un quadro di instabilità che ha diverse somiglianze con l’oggi – che solo un partito unito avrebbe avuto la possibilità di contare qualcosa. Non disse mai che bisognava reprimere il confronto interno, o silenziare le diversità. Non tentò mai di delegittimare chi non la pensava come lui. Chiese soltanto di agire come un corpo collettivo, capace di tenere vivo l’ideale comune mentre il tempo nuovo imponeva un cambiamento fino a ieri impensato. Disse ancora un’altra cosa Moro in quel memorabile discorso: che tutti vorremmo fare un salto al domani, ad un domani dove sia più chiara la competizione tra schieramenti politici. «Ma questo non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità».
Il punto non è la paura del confronto interno ed esterno. Il punto è capire se il Pd ha idee e proposte forti per affrontare questa crisi. E, dopo aver deciso la rotta, il punto è capire se avrà la capacità di fare delle sue proposte il terreno del confronto politico. Non basterà il Pd per risolvere la crisi. Ma la coesione del Pd – forza di maggioranza relativa – è la condizione perché le altre forze si assumano le proprie responsabilità e perché i cittadini possano giudicare con trasparenza. Un Pd indeterminato perché diviso, rischia di essere una bandiera al vento. E stavolta anche di perdere quell’identità di «partito della nazione», che è il suo fondamento assai più di tante questioni discusse in questi anni. L’unità in questa crisi è la condizione per poter prendere la parola e lottare perché la parola produca dei fatti.
L’Unità 06.03.13