Da circa una settimana, ossia da quando sono stati resi noti i risultati elettorali, tutte le forze politiche si comportano come se l’economia non esistesse: l’attenzione è pressoché totalmente indirizzata a uscire dal vicolo cieco in cui la politica stessa si è cacciata, senza alcuna vera attenzione né per la crisi economica né per le regole e i vincoli di un’economia che, come le altre dell’Unione Europea, non può più dirsi totalmente sovrana, risultando vincolata da regole che non è possibile trasgredire disinvoltamente.
Un atteggiamento del genere rischia di distruggere in poche settimane il risultato di un anno e più di sacrifici: l’Italia ha riacquistato credibilità ma deve prendere a prestito quasi un miliardo di euro al giorno solo per rifinanziare il debito in scadenza, un’operazione che già è ridiventata sensibilmente più cara. In queste condizioni il dialogo con l’Europa non può essere condotto burocraticamente; al tavolo devono sedere un presidente del Consiglio e un ministro dell’Economia pienamente legittimati, ossia in grado di impegnarsi sulla base di un sostegno generale espresso dal Parlamento con un voto di fiducia.
L’agenda degli argomenti che attende questo presidente del Consiglio e questo ministro dell’Economia è fitta e urgente: il 14 marzo si riunirà a Bruxelles il Consiglio Europeo di primavera, primo di una serie di appuntamenti in cui sarà messa a punto la strategia economica europea per i prossimi 6-12 mesi. E’ naturalmente troppo presto perché l’iter politico italiano sia stato completato ma qualche indicazione dovrà essere chiara: l’Italia proprio non può sedersi al tavolo e far scena muta, deve partecipare a decisioni collettive e usare l’autorevolezza conquistata per fare richieste precise. Queste richieste potrebbero essere tre.
In primo luogo, dovrebbe essere avviato un confronto sulla differenza tra Francia (alla quale si consente di arrivare al pareggio del bilancio nel 2017) e Italia (costretta, per impegni del precedente governo, al pareggio nel 2013). Non si tratta di guadagnare qualche rinvio ma di consentire una rapida messa a punto di strumenti di rilancio della domanda. Un’Italia divenuta più credibile deve ricevere un trattamento più prossimo a quello dei «cugini» francesi che consenta misure di rilancio; e deve sottolineare che l’Europa è ormai attanagliata dalla crisi, la stessa Germania ne è almeno sfiorata e la pazienza politica degli europei non è eterna.
Uno dei possibili strumenti di rilancio riguarda il debito dello Stato e degli enti pubblici verso le imprese, nell’ordine di 80 miliardi di euro. Le norme europee lo considerano un debito «commerciale» e pertanto non è incluso nel debito pubblico. Debito commerciale, però, non è più: successivi governi hanno ritenuto comodo non pagare i fornitori per rendere meno brutto il quadro della finanza pubblica. Chi andrà a Bruxelles deve richiedere che almeno una parte di questo debito venga «finanziarizzato», il che consentirebbe a Stato ed enti pubblici di farsi anticipare le risorse per pagarlo dal mondo bancario, per il quale si tratterebbe di un investimento analogo a un Btp o a un Cct.
Il pagamento dei debiti (ex)-commerciali è assolutamente prioritario per evitare il collasso di un gran numero di fornitori dell’amministrazione pubblica: l’immissione rapida nel circuito finanziario di almeno 40-50 miliardi sarebbe uno stimolo sufficiente a far ripartire l’economia, anche se non basterebbe a conservarne lo slancio e dovrebbe essere seguito da altre misure espansive. Una parte di queste risorse tornerebbe rapidamente al settore pubblico sotto forma di maggiori entrate fiscali e potrebbe essere nuovamente utilizzata per sostenere interventi pubblici rallentati o sospesi negli ultimi dodici mesi. L’elenco è lunghissimo c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Nell’attuale emergenza economica non si può, inoltre, non rimettere sul tappeto il problema delle riserve auree italiane, molto ingenti e contabilmente valutate a circa 40 dollari l’oncia contro un prezzo di mercato di oltre 1500 dollari. La mera rivalutazione contabile (per un valore di circa 150 miliardi di euro) probabilmente indurrebbe i mercati finanziari a giudizi meno severi sull’Italia e a una riduzione dello spread. Com’è noto, spread più basso significa deficit più basso o più alta capacità di spesa pubblica a parità di deficit. L’oro potrebbe poi essere dato in garanzia a un ente internazionale – il miglior candidato è il Fondo Monetario – per ottenere non un nuovo prestito, di cui non c’è bisogno, bensì una linea di credito per fronteggiare attacchi speculativi: una sorta di Fondo Salva Italia, senza passare necessariamente per l’europeo Fondo Salva Stati.
Naturalmente per ottenere qualcosa è necessario che al tavolo di Bruxelles l’Italia non mandi degli «zombie» bensì ministri nella pienezza dei loro poteri, appoggiati da un voto di fiducia parlamentare. In ogni modo, la partita europea che si giocherà nei prossimi 2-3 mesi è essenziale perché l’Italia possa rimanere in serie A. Se le Camere e le forze politiche ritenessero di dedicare tutto il loro tempo, in questo periodo cruciale, a parlare dei loro problemi, della riduzione dei costi della politica, di fatto la politica potrebbe uccidere l’economia. E sarebbe inutile che dopo venisse a portare fiori sulla sua tomba.
La Stampa 06.03.13