«Alcune settimane prima del voto sono tornato in Italia, un Paese che ho imparato ad amare negli anni dell’inferno nella ex Jugoslavia, la martoriata terra da cui provenivo. L’immagine che in quei giorni ho avuto del Paese, era di una Italia sospesa, senza bussola, impaurita dal presente e in cerca di una speranza per il futuro. Questa Italia non può essere salvata da un comico innalzato a leader politico». L’Italia investita dallo «tsunami Grillo» vista attraverso la sensibilità culturale e la lucidità intellettuale di Predrag Matvejevic, scrittore, saggista, docente universitario i cui libri sono tradotti in tutto il mondo. Il suo percorso culturale e umano (nato a Mostar, da madre croata e padre russo) è quello di un intellettuale che ha cercato nel cuore dell’«inferno balcanico» di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte. «L’Italia dice a l’Unità Matvejevic non può pensare di potere uscire dalla crisi che non è solo economica o politica, ma anche etica, valoriale da sola. Certo, l’Europa che si riavvicina ai suoi popoli, che si fa amare, non può essere l’Europa degli speculatori finanziari, un’Europa che non sa parlare né al cuore né alla mente delle persone. L’Europa dell’iper austerità alimenta solo il malessere sociale, ma l’Europa in quanto tale non è il problema, è semmai una soluzione. Che va costruita assieme, il più forte con il più debole, perché nessuno, da solo, ha un futuro». Di una cosa il grande scrittore si dice certo: «L’Italia non potrà essere salvata da un comico».
Professor Matvejevic, iniziamo dal suo rapporto con l’Italia…
«Ho trascorso quattordici anni in Italia, fra asilo ed esilio. E come tanti intellettuali dissidenti dell’Est Europa, mi ha pesato essere “fra”. Ma in Italia ho trovato una straordinaria accoglienza in quegli anni terribili in cui a pochi chilometri dalle vostre frontiere a Est, un Paese, la Jugoslavia si frantumava tra odio, pulizia etnica, fosse comuni… Questa Italia, dove per anni ho insegnato alla Sapienza di Roma, mi è rimasta nel cuore. Ed è con questo sentimento che anche oggi che non vivo più in quello che considero ancora il “mio” Paese, mi accosto alle vicende italiane. con un misto di speranza e di apprensione». Quando è stato per l’ultima volta nel nostro Paese e che impressione ne ha ricavato?
«Sono tornato in Italia in piena campagna elettorale, per un ciclo di conferenze e per incontrare amici di una vita. Ho visto un’Italia che facevo fatica a riconoscere. Un Paese piegato su se stesso, senza bussola. Quello che riusciva a trasmettermi è un senso di angoscia, di sospensione. Non è stato così nel passato. Penso agli anni difficili del dopoguerra, quelli che imparai a conoscere soprattutto grazie alla straordinaria stagione del neorealismo nel cinema. Allora c’era una classe dirigente che seppe portare su di sé il fardello della ricostruzione, una classe dirigente che seppur da fronti opposti si faceva carico del destino del Paese. Oggi non è più così. Ciò che più mi ha colpito è stato l’incontro con diversi miei studenti alla Sapienza. Quasi tutti erano alla ricerca di un lavoro. Ecco, il lavoro. La prima tra le emergenze. In quei giovani c’era tanto dolore, rabbia, e allora mi sono detto che chi avrebbe intercettato quel malessere sarebbe uscito vincitore dalle urne…».
E quel vincitore è stato Beppe Grillo.
«Avevo una simpatia per il comico, ma non per il politico. Da politico il suo “vestito” naturale, il suo abito mentale, è quello dell’oppositore, di chi è bravissimo a distruggere come è incapace a costruire. Grillo ha saputo mettere all’indice i vizi e le malefatte della vecchia politica, ma non è nelle sue corde avanzare progetti. Chi ambisce a guidare un Paese non può limitarsi alla denuncia, deve avere anche il coraggio e l’onestà intellettuale di prospettare soluzioni, “sporcarsi le mani”, dire con chi intende governare. L’Italia non può essere salvata da un comico incapace di trasformarsi in uno statista. E invece proprio di uno statista che l’Italia avrebbe bisogno: uno statista che, è bene sottolinearlo, non ha nulla a che vedere con l’”uomo della provvidenza”».
Lei ha insegnato anche alla Sorbona…
«Ecco, la Francia dovrebbe servire da esempio. E non mi riferisco alla Francia che pure ha cercato di porre fine al ciclo conservatore votando Francois Hollande. Penso anzitutto alla Francia che nei momenti di maggiori difficoltà seppe anteporre l’interesse nazionale a quelli di parte. È la Francia dei “comitati di salute pubblica”. L’Italia dovrebbe trarne insegnamenti…».
Grillo ha intercettato anche un sentimento di diffidenza, se non di aperta ostilità, verso l’Europa.
«Ed è un fatto inquietante. Perché con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, l’Europa non è il “problema” ma può essere la “soluzione”. C’è bisogno di più Europa ma anche di un’altra Europa. L’Europa che sappia riconquistare le sue genti, che metta al primo posto il lavoro, l’istruzione, un futuro per i giovani. Una Europa solidale, sociale, che costruisce ponti di dialogo e infrange i “muri” di odio e di diffidenza. Guai a sacrificare l’ideale europeista sull’altare di nuovi populismi nazionalisti. Ho ancora su di me, nel mio cuore, nella mente, le ferite delle guerre nella ex Jugoslavia. So che significa additare l’altro da sé come il Nemico mortale, usare la fede religiosa come arma ideologica, l’appartenenza etnica come l’assoluto identitario. L’Italia non deve cadere in questa trappola, sarebbe una trappola mortale. Spero molto nella saggezza di un grande europeista italiano: Giorgio Napolitano».
Grillo ha rilanciato l’idea di un referendum «via internet» sull’uscita dall’Euro. «L’Europa non può essere solo una moneta unica, deve essere molto di più. Una visione, una politica. Una speranza. Ma il comico che sa distruggere non è anche un grande costruttore».
L’Unità 05.03.13