Non è vero che il terremoto elettorale ha origine solo nella crisi della politica. Mai come stavolta si è verificato uno scollamento tra generazioni e ha pesato la precarietà. Balzano agli occhi i consensi ottenuti dai 5 Stelle tra gli elettori più giovani e tra i disoccupati. Il che dimostra che la sfiducia verso la politica sono una chiave interpretativa non sufficiente.
Sono passati sette giorni dal terremoto che ha sconvolto l’Italia della politica. Un sisma fuori scala, il cui epicentro non è nel sistema dei partiti, ma nella società. Dalle urne è uscito l’urlo di una generazione cui è stato sottratto il futuro. Poteva manifestarsi nelle piazze. È esploso, invece, nei seggi elettorali, materializzandosi in un contesto di istituzioni molto fragili, logorate, indebolite. Soprattutto, incapaci in questi anni di trasformare questi segnali in un’azione riformatrice. La forza di quanto accaduto, e la potenza degli eventi, non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica. E nemmeno in Europa, per come si è manifestato e per l’impotenza che adesso avvolge le istituzioni democratiche.
Tutto è cambiato dalla manifestazione di Roma, a piazza San Giovanni, a 48 ore dal voto, e dalle tante piazze riempite nei giorni precedenti, con centinaia di migliaia di cittadini plaudenti. Da quelle piazze, e dai relativi collegamenti web, la dinamica non è stata più politica, non ha misurato più il consenso, ma ha assunto le dimensioni della partecipazione collettiva a un evento che avrebbe segnato la vicenda del nostro Paese. È stata la caduta di un «muro», del nostro muro, a spingere qualche milione di italiani a depositare il loro «mattone» nell’urna, come una testimonianza della propria presenza.
Solo partendo da qui si possono evitare analisi viziate dai vecchi paradigmi e da presupposti che appartengono a un passato spazzato via dalla crisi economica e dalla crisi istituzionale. Il fenomeno è molto più profondo di quanto è stato descritto nelle prime analisi post-voto. E solo la cecità di chi non vuol vedere può nascondere i detriti del mondo rovesciato in cui ci siamo scoperti a camminare. Non è stato un voto di protesta, ma molto di più: il distacco di due placche sociali, la deriva di una generazione dall’altra. Un quarto dei votanti ha scelto il movimento di Grillo. Ma non è tanto il numero che conta. Perché questo voto non ha una contabilità elettorale, ma quasi esclusivamente sociale. Nei seggi non è stata messo il segno su un simbolo, bensì premuto un pulsante di allarme disperato.
Lo si legge nel voto degli studenti e dei disoccupati. Lo si vede nella differenza dei gesti elettorali dei giovani e degli anziani, e nelle differenze tra chi riesce a preservare un briciolo di garanzie (come i lavoratori dipendenti) e chi, invece, queste garanzie non le ha mai avute e mai, probabilmente, le avrà. La velocità a terra del terremoto si vede dalla paralisi istituzionale, ma l’intensità si desume dai numeri: su 8,7 milioni di cittadini che, tra domenica e lunedì, hanno votato il Movimento 5 Stelle, oltre 2,5 milioni vengono dal centrosinistra, 3,1 milioni dal centrodestra e 2 milioni dall’astensionismo. 4,9 milioni di voti sono di elettori che, in passato, avevano votato i partiti dell’«esperienza Monti», mentre più di tre milioni derivano da quell’asse Pdl-Lega che ha segnato le vicende dell’Italia nell’ultimo ventennio.
In qualsiasi modo si scomponga e ricomponga, il voto segnala la potenza dell’evento. Cos’altro serve per capire che non si tratta di un voto che può essere letto soltanto attraverso le lenti del consenso politico? Ogni paragone con il passato non ha termini adeguati. La crisi politica del ’92, che portò, nelle elezioni politiche di due anni dopo, all’affermazione di Forza Italia, non è confrontabile. Il partito di Berlusconi nacque improvvisamente, ma sul «ground zero» del pentapartito (Dc, Psi e alleati). Oggi, il Movimento 5 Stelle si fa spazio tra le forze politiche esistenti, nonostante queste siano comunque in campo, e ben attrezzate, con i loro apparati del consenso. Un elemento in più che dimostra che l’unità di misura ha una scala sociale prima ancora che politica.
D’altronde per troppo tempo, nel profondo del Paese, si è accumulata un’energia distruttiva.
Dal 2001 l’Italia è uno dei Paesi che, dal punto di vista economico e sociale, cresce meno. Non in Europa, ma nel mondo. Facciamo un uso dissennato del suolo, abbiamo costruito su tutto e inquinato di tutto. Anziché ferrovie e ponti, abbiamo costruito cattedrali nel deserto. Abbiamo condonato ogni nefandezza e sanato ogni reato contro il bene pubblico. Abbiamo trasformato grandi elusori in eroi, facendo, invece, guerre sante contro i commercianti e gli artigiani. Conserviamo, per alcune categorie, privilegi e retribuzioni (e pensioni) alte, e per pareggiare i conti condanniamo alla povertà i giovani. Da decenni non abbiamo una politica industriale, incolpando di questo sindacati e lavoratori. Anziché finanziare riconversioni, ricerca e innovazione, dissipiamo enormi risorse pubbliche per accanimenti terapeutici nei confronti di settori produttivi saturi, vecchi, senza futuro. Non si investe più in scuola, cultura, conoscenza.
Abbiamo un sistema politico inadeguato, deformato dalla seconda Repubblica, e al tempo inconcludente. La sfiducia verso la classe politica, oltre che da fattori soggettivi, è stata accentuata dal distacco del Porcellume e delle sue liste bloccate. Monti, all’esordio, è sembrato un gigante, non per le sue politiche economiche ma perché, dopo il decennio berlusconiano, non ha dato una rappresentazione ridicola del Paese.
Se Tangentopoli ha rappresentato il punto di caduta della prima Repubblica, la seconda è finita anzitutto per l’impotenza della sua politica a cambiare davvero il Paese. Nell’ultimo ventennio si sono susseguiti governi molto diversi tra loro per qualità e per strategie, alcuni di questi governi hanno anche compiuto scelte importanti per l’Italia, tuttavia sono stati tutti governi sostanzialmente deboli, sempre ostaggi di qualcosa o di qualcuno, incapaci di portare a compimento le riforme profonde. Abbiamo avviato un percorso costituzionale per disporci verso il federalismo, ma lo abbiamo interrotto a metà. Abbiamo trasferito competenze ai territori, sottraendogli però le risorse necessarie a esercitarle. Di conseguenza, il federalismo è diventato un moltiplicatore della spesa pubblica. Siamo rimasti un Paese incompiuto, come i cavalcavia sospesi a metà su campi incolti. Non siamo riusciti a fare una legge elettorale, nemmeno di fronte alla minaccia del baratro. Eppure, ogni giorno, si annunciava la soluzione del rebus. Oggi il Paese paga le drammatiche conseguenze. Ci fosse stato il doppio turno, come in Francia, probabilmente racconteremmo un’altra storia, almeno dal punto di vista istituzionale. E la storia sarebbe diversa, e forse non così drammatica, anche se avessimo sistemi simili a quello inglese, o tedesco, o svedese. Invece, qui in Italia è la paralisi. Non sappiamo se ci sarà un governo in grado di raccogliere la sfida sociale che viene dalle urne. E intanto la crisi imperversa, bruciando i posti di lavoro, i redditi delle famiglie e la capacità produttiva delle imprese.
L’anno zero è veramente arrivato. E abbiamo scoperto che la crisi non riguarda solo l’economia. Dire che quello di domenica scorsa è stato una protesta «antipartitica» significa non aver capito nulla di quanto è accaduto. Nelle urne, pur nelle sue contraddizioni, è stata rappresentata un’idea di società che si rafforza nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, la sanità, l’assistenza ai più deboli, l’istruzione, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti.
E la politica tutta la politica, anche quella nuova si aggira ora disorientata tra masse di elettori che esprimono una sofferente geografia del consenso. Mentre il voto esprime il bisogno di un nuovo patto, una rifondazione che ispiri le scelte e le azioni pubbliche. Non rispondere a questo bisogno rischia di far esplodere in maniera ancora più forte la frattura sociale che si è manifestata nel voto. Sarebbe un errore cercare, adesso, l’alibi della protesta.Rischia di essere un grave errore anche per Grillo, che pure ha alimentato e si è alimentato di questo sentimento diffuso. Non è la protesta che serve al Paese, ma un colpo d’ali. E il Parlamento, o è in grado di esprimere un governo forte in grado di dare risposte, oppure è meglio per tutti che si torni velocemente alle urne. Occorre una politica che sappia farsi carico di quella volontà di rifondazione morale, civile ed economica che è stata depositata nelle urne. Non è più il tempo di soluzioni intermedie, rinvii e alchimie tattiche. Del resto, anche i mercati non faranno sconti, perché l’incertezza rischia di accendere una crisi che può far crollare l’intero impianto europeo.
Mai come adesso il Paese è un osservato speciale, perché da noi può partire un’epidemia in grado di diffondersi in tutto il continente. Occorre la consapevolezza che non ci sarà un secondo tempo. E soprattutto bisogna farla finita con la favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nelmomentoincuiagiscein una determinata direzione. Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che hanno preso la forma della grillo-ribellione, ne sentono la mancanza. Le pratiche chesimoltiplicanoaspiranoa teorie in grado di spiegarle e darne un senso, così come le buone idee hanno bisogno di un’operatività pratica capace di renderle reali e concrete. Il «liquidismo» che traspare da alcune analisi è nemico del futuro del nostro Paese. E per contrastarlo non occorre un uomo forte ma la forza del pensiero, condiviso, responsabile. Qualcosa che solo la buona politica può offrire.
da l’Unità 4.3.13