Moccia, dirà il direttore dello stabilimento tarantino in un comunicato di condoglianze, è “lavoratore modello… sempre disponibile”. Ambedue disponibili a salire, alle 4 e mezzo di notte, sul ponte che sovrasta le batterie della cokeria: vi corrono i binari della macchina caricatrice che va su e giù ai forni. Sulla batteria 9, ferma per i primi lavori di messa a norma, una rotaia ha un rialzo che intralcia la corsa, i due devono ripararla. Lavorano a cielo aperto, fra i binari c’è una passerella assicurata, ai lati invece sono state posate alla meglio delle lamiere, solo per impedire che cadano materiali sugli operai che lavorano sotto. La lamiera cede e i due precipitano: Liddi è sopravvissuto solo perché è caduto addosso al compagno. In ospedale, le sue sorelle raccontano che anni fa avevano perduto un altro fratello precipitato da un ponteggio. Moccia, un omone cordiale di origine napoletana e di famiglia tarantina di “Paolo VI”, il quartiere che prese il nome dalla visita del Papa, ha moglie, che lavora alla mensa dell’Ilva, e due figlie adolescenti. Arrivano alle undici di mattina, tre generazioni di donne affrante, all’infermeria della fabbrica mutata in obitorio. Intanto i sindacati hanno dichiarato lo sciopero generale. Tanti operai vanno via in fretta con le facce scure, alcuni si fermano a discutere. Dicono cose dure. I capi che minacciano e fanno i prepotenti. I rapporti disciplinari che fioccano – per esempio al movimento ferroviario, dove da mesi si svolgono scioperi lunghi e compatti, contro l’obbligo di manovrare da soli sui treni, a costo di non poter chiedere soccorso. Successe così al macchinista morto 4 mesi fa, Claudio Marsella. Aveva 29 anni, ora alla porta il suo fratello maggiore, Dario, abbraccia i compagni prima di andare all’ospedale: “Forse fra noi che ci siamo passati possiamo dirci qualche parola più vicina”. È lunga la catena di quelli che ci sono passati. Ero venuto a Taranto per guardare il voto di una città in cui si è fatta terra bruciata. Gli operai hanno votato come altrove, ma di più: più astensione (“Taranto libera”), più Grillo. Di prima mattina mi è arrivato il messaggio di Francesca Caliolo, che perse suo marito all’Ilva sette anni fa. “Ogni volta questa notizia mi fa tremare”, ha scritto. Chissà se è così mattiniera per abitudine, o per una fatica a prendere sonno. Alle porte gli operai sono esasperati: l’Ilva non compra più nemmeno i guanti, dicono, per una tuta nuova bisogna mettersi in coda. “Perfino sulle prescrizioni dell’Aia tirano a risparmiare!”. La manutenzione ordinaria non esiste, dicono, si va solo a rattoppare. Sono molto giovani, ma sapeste quanti vi spiegano di andare avanti a psicofarmaci, e tirano fuori i certificati dal portafoglio. Moccia è il terzo morto in meno di quattro mesi. Incontro dei gruisti che dopo la sciagura del tornado e la morte terribile di Francesco Zaccaria non se la sono sentita di risalire sulle gru e si sono fatti trasferire – “Mia moglie non me l’avrebbe perdonato”.
Va così, nella “più grande acciaieria d’Europa”. Che ha decretato una cassa integrazione per due anni di 6.400 dipendenti, un po’ più della metà del totale: più o meno la riduzione corrispondente al dimezzamento della produzione di una (molto eventuale) Ilva rimessa in riga. Da dove arriverà il denaro per la cassa e per la rimessa in riga, è un mistero. Non è affatto un mistero il doppio regime della fabbrica travolta dalla ribellione cittadina e dall’azione della magistratura: sequestri e controlli delegati a custodi da una parte, imperterrite violazioni dall’altra. Con una proprietà arrestata a domicilio e screditata senza scampo, e una successione di dirigenti la cui promozione suonava come un annuncio di rovina (da ieri il nuovo direttore e altri dirigenti sono indagati per omicidio colposo), l’Ilva ha continuato come per inerzia a raschiare il fondo del barile. Ispezioni dell’Ispra, accompagnate da Regione, Arpa, Asl, che si sono trovate di fronte a plateali disastri: perdite di vapori acidi ad altezza d’uomo nel camino di granulazione dell’altoforno, miscelazione di vietatissimi benzene e catrame al reparto sottoprodotti della cokeria, materie micidiali da smaltire ad alto costo spregiudicatamente vendute come materiale edilizio. Continua a succedere fin sotto gli occhi esterrefatti dei controllori. Per anni le analisi si erano rassegnate alle autocertificazioni dell’Ilva e ai campioni raccolti dai suoi: la diossina impestava miracolosamente più i pascoli che l’interno dello stabilimento. La prima volta che l’Arpa ordinò il prelievo di campioni freschi all’agglomerato, tutto cambiò. Le fumate perenni sopra l’Ilva incombono sullo sguardo e sull’anima dei tarantini e la rendono pesante, “ma le peggiori porcherie stanno nel sottosuolo”, nel sistema di discariche interne che nessuna Aia ha intaccato, e che farà inorridire gli archeologi futuri, se ci sarà un futuro. Si smaltivano nella cokeria di Taranto le polveri di desolforazione della cokeria di Genova, saturando i filtri in un batter d’occhio. Fanghi sversati nei parchi non pavimentati, con la falda acquifera a un metro, e vanno a finire dritti nel Mar Piccolo, quello delle cozze prelibate, che ora nei ristoranti della città vecchia arrivano, scipite, dalla Spagna. Fanghi prelevati dal canale industriale e buttati negli altiforni. Il piano degli interventi scritto nella legge Clini non ha alcuna certezza normativa, i suoi costi non prevedono alcuna fideiussione, le sue violazioni comportano solo una multa – presentata come terribile: il 10 per cento alla fine dei tre anni. La mancata ottemperanza delle prescrizioni dell’Aia comporterebbe, con le sanzioni penali, la sospensione dell’esercizio dell’attività; se non che la legge ad hoc consente la prosecuzione del reato. La magistratura aveva confidato a quattro “custodi” lo stabilimento: due uomini e due donne, giovani, ciascuna con una sua competenza, che hanno mostrato in una prova enorme, a proposito di elezioni, che cosa potrebbero fare per questo paese degli esordienti capaci e soprattutto disinteressati. Un governo che si voleva “tecnico” ha messo le garanzie dell’Ilva tarantina nelle mani di un vecchio signore ben pagato e del tutto ignaro di acciaio. Se toccasse a quelle “custodi” di trent’anni e ai loro colleghi, dallo stipendio di 2 mila euro e dalla preparazione internazionale, forse la siderurgia italiana ce l’avrebbe, un futuro, e anche l’incolumità dei lavoratori e la salute e la dignità delle città.
La Repubblica 01.03.13