Cerchiamo di capire i massaggi molto seri e gravi che ci manda questo Paese. Essi interrogano non solo le capacità politiche di chi dovrà mettere insieme una maggioranza di governo, investono il pensiero sull’Italia di oggi e il sentimento di ciò che è in gioco. Spero che alla luce del terremoto elettorale sia più chiaro che cosa era (ed è) in discussione. Non una normale scelta tra progressisti e conservatori ma un problema costituente, di futuro della nazione. Il dilemma era chiaro.
Non c’era (e non c’è) altra speranza di evitare un destino di decadenza e di marginalità rispetto al mondo nuovo che non sia quella di ricollocare il grande, ma sempre più dissipato patrimonio storico italiano (produttivo, culturale, di capacità umana), in una vicenda più vasta; che è la creazione di una federazione europea, cioè uno strumento senza il quale e fuori dal quale un Paese come l’Italia non ha le risorse per affrontare i suoi problemi. Insomma il rischio di finire ai margini del mondo nuovo e di non contare più niente.
Questo era e resta il nostro ruolo: guidare il Paese in presenza di qualcosa che non è solo una gravissima crisi economica ma un
trapasso geo-politico rispetto al vecchio ordine mondiale. Ma l’interrogativo che mi preme, anche alla luce dei risultati elettorali, è questo: si può fare un’operazione così difficile senza una consapevolezza più profonda da parte delle grandi masse popolari e senza fare i conti – tornerò su questo punto che è cruciale – con una lacerazione così ampia e profonda del tessuto sociale (specie del rapporto con i giovani) e con una vacillante unità nazionale? Tutti danno consigli e lezioni al Pd. Ma il punto che si continua a eludere quando si innalza il vessillo del rinnovamento è sostanzialmente questo.
Dopotutto le nostre facce – vivaddio – sono pulite e i dirigenti nuovi e giovani sono tanti. Ciò che non si riesce a rinnovare è
altro: è la concezione della politica come gioco di vertice, è come impedire la riduzione del partito a strumento elettorale. Ma
soprattutto il fatto che non rappresentiamo gli «ultimi».
Abbiamo assistito allo spettacolo di volgarità, di cinismo, di fuga dai problemi reali e da ogni responsabilità verso il Paese che ci ha offerto la campagna elettorale. Ma è sbagliato prendersela con gli elettori. Ascoltiamoli, invece. Essi segnalano che la malattia è più profonda e riguarda il modo di essere dell’Italia. Ed è su questo che vorrei facessimo qualche riflessione. La verità – mi pare – è che il sistema italiano, cioè quell’insieme di strutture che formano lo Stato, l’amministrazione, la scuola, i compromessi sociali, il rapporto tra il Nord e il Mezzogiorno, non regge più. Siamo arrivati a un’ultima spiaggia.
E ciò per tante ragioni, ma la principale è che noi, così come siamo, non siamo in grado di stare al passo con i cambiamenti
del mondo. Non nascondiamocelo. Perciò da venti anni non cresciamo, e ciò rende incerto il futuro dei nostri figli e nipoti. Io credo che sia questo che spiega il terremoto politico in atto. La gente lo sente sulla sua pelle e disprezza «chi comanda». Sbaglia a dire «siete tutti uguali», ma io non ricordo una situazione simile, cioè un numero così grande di persone, di povera gente come di commercianti e soprattutto di giovani che appaiono così smarriti e sfiduciati, che non vedono un futuro sia pure non immediato.
Persone alle quali la politica non può dire solo che la crisi è grave, che non è finita, anzi che il peggio deve ancora arrivare e
che c’è ben poco da fare. Questa situazione non può durare. D’altra parte a che servono le ricette degli economisti se la società italiana si disgrega?
Dunque, arrivo al punto. Tutto ormai ci dice che è tempo di mettere in campo un pensiero politico sull’Italia più forte e più
autonomo rispetto al ricettario dominante (rigore senza sviluppo). Un pensiero che, tenendo ben fermi i vincoli e gli impegni europei, rimetta al centro quello che è più che mai il problema principale di questo Paese: la questione della sua unità, irrisolta da più di un secolo ma aggravata – diciamolo – dal modo come le forze dominanti, il cosidetto «asse del Nord» (Berlusconi, Lega e il «salotto buono» milanese) ha governato per quasi 20 anni. In nome degli interessi del più forte,
sul saccheggio dello Stato e sullo scatenamento degli egoismi sociali. Il risultato è che la povertà torna a presentarsi in larghe
zone del Mezzogiorno mentre al Nord si moltiplicano i fallimenti delle imprese.
L’Italia non è un problema di risorse scarse, né di «Roma ladrona». Se la cosa pubblica non funziona è perché si è rotto un organismo nazionale e un patto sociale. Quindi è la grande politica che deve tornare a occupare il suo spazio. Il suo compito
non è fare «inciuci» ma mettere fine alla scissione tra l’economia e la società. Lo spazio per le riforme esiste se si punta sul protagonismo delle persone, spingendole a misurarsi e a cooperare tra loro. I tecnici faranno quello che devono fare, ma il compito vero dei riformisti è mettere 60 milioni di italiani dotati di una qualche intelligenza (cioè persone, non derivati o titoli bancari) nella condizione di impadronirsi delle loro vite e quindi produrre cose, idee, progetti, bisogni, relazioni.
Tutto ciò in vista di che cosa? L’Europa. Ma anche qui dobbiamo uscire dal generico perché in Europa ci sono tante cose. C’è
una destra e c’è una sinistra, c’è il più grande deposito di civiltà e capacità dell’uomo e ci sono al tempo stesso le fratture create dalle troppe guerre. Ma c’è in Europa anche una nuova possibile strategia in nome della quale lo sviluppo dei Paesi del Sud come l’Italia non è un peso, ma una grande occasione anche e soprattutto ai fini di un protagonismo mondiale. Parlo di una Europa che decida di aprirsi non solo verso il Nord, ma verso l’Oriente e l’Africa (i grandi sviluppi futuri) e che in ciò riscopre come sua risorsa straordinaria questa grande penisola protesa nel Mediterraneo che è l’Italia, il luogo delle antiche civiltà e religioni che hanno plasmato l’uomo moderno. Stiamo attenti perché questo non è un mito astratto, è il solo modo per tenere unita l’Italia. Solo una Italia unita può andare in Europa. E solo una nuova Europa può riaprire all’Italia le vie dello sviluppo.
da l’Unità